Impugnazioni in appello nel rito lavoro: il termine di dieci giorni entro il quale l’appellante, ai sensi dell’art. 435 secondo comma c.p.c., deve notificare all’appellato il ricorso con decreto di fissazione d’udienza, non ha carattere perentorio, e la sua inosservanza non è sanzionata ex lege, non producendo quindi alcuna conseguenza pregiudizievole per la parte.
La Corte di Cassazione, terza sezione civile, con la sentenza del 14 marzo 2017 n. 6464 si è pronunciata sull’interpretazione dell’art. 435 c.p.c. relativo al rito lavoro, statuendo il carattere non perentorio ma meramente ordinatorio del termine di dieci giorni per la notifica del decreto all’appellato.
In particolare, la norma relativa all’appello con rito lavoro prevede al secondo comma che l’appellante notifichi all’appellato il ricorso depositato insieme al decreto emesso dal Tribunale di fissazione dell’udienza nel termine di dieci giorni dal deposito (e comunicazione) del decreto.
La Corte, richiamando una giurisprudenza già consolidata sul punto, nonché una pronuncia resa dal Giudice delle Leggi con una sentenza del 2012, afferma che tale termine di 10 giorni non è perentorio ma solo ordinatorio, perché non incide su alcun interesse di ordine pubblico processuale né su di un interesse dell’appellato.
Ciò che conta ai fini della procedibilità dell’appello è che il ricorso con il decreto sia notificato alla controparte e che risulti rispettato il termine ex art. 435 comma terzo cpc, per cui tra la data di notifica all’appellato e quella dell’udienza di discussione deve intercorrere un termine non minore di venticinque giorni. Trattandosi di termine direttamente incidente sulle garanzie di difesa dell’appellato, il termine di cui al terzo comma è invece da intendersi come perentorio e previsto a pena di improcedibilità dell’appello rito lavoro.
In conclusione, dunque, se il ricorso con decreto è stato notificato all’appellato, pur senza rispettare i dieci giorni dal deposito del decreto, me nel rispetto del termine di comparizione, l’appello non potrà essere dichiarato improcedibile, non impedendo il rispetto di tale termine le garanzie del giusto processo e del diritto di difesa, con un’interpretazione volta a tutelare l’interesse dell’appellante (impedendo che la sola violazione del termine ordinatorio in questione determini l’improcedibilità del gravame) e quello dell’appellato, cui resta comunque garantito un termine a comparire sufficiente ad apprestare le proprie difese.
Martina Scarabotta