Una dottissima riflessione morale sulla pratica di bollire una creatura viva al fine di aumentare il piacere del consumatore si deve alla geniale penna di David Foster Wallace, autore del breve saggio “Considera l’aragosta” (apparso per la prima volta negli USA nell’agosto del 2004 – con il titolo “Consider the lobster” e pubblicato due anni più tardi in Italia da Einaudi). Lì – forse – la truce sorte del principe dei crostacei era solo un pretesto per affrontare interrogativi ancestrali, per riflettere sulle ragioni per le quali l’uomo infligge sofferenze agli animali e su cosa, in ultima analisi, significa “cibarsi”. « Ha qualche significato – si domanda l’autore di Infinite jest –il fatto che lobster, fish e chicken siano le parole usate nella cultura inglese per indicare sia l’animale che la sua carne, mentre per la maggior parte dei mammiferi sembra esserci bisogno di eufemismi come beef e pork invece che cow e pig che ci aiutino a separare la carne che mangiamo dalla creatura vivente che un tempo quella carne era? È questa la prova che esiste una sorta di profondo disagio riguardo al fatto di mangiare animali superiori, un disagio endemico al punto da emergere nell’uso della lingua, ma che diminuisce via via che ci allontaniamo dall’ordine dei mammiferi? (E, allora, lamb/lamb è il controesempio che fa affondare l’intera teoria, oppure ci sono ragioni biblico-storiche per l’equivalenza?)».
Forse meno raffinata, ma di sicuro impatto pratico, invece, è la sentenza della Corte di Cassazione che ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato da un ristoratore di Campi Bisenzio, in provincia di Firenze, condannato per aver detenuto aragoste e granchi vivi sul ghiaccio con le chele legate.
La vicenda era nata nel 2012 da un esposto della LAV, che denunciava le condizioni di detenzione di alcuni crostacei all’interno del ristorante. Gli agenti della Polizia municipale avevano effettuato due sopralluoghi a seguito dei quali erano stati scoperti aragoste e granchi vivi con le chele legate, conservati in celle frigorifere a temperature che oscillavano tra 1,1 e 4,8 gradi centigradi.
Il Tribunale di Firenze si era pronunciato in primo grado nel 2014 condannando il malcapitato oste al pagamento di una multa di 5.000 euro. Il verdetto dei giudici fiorentini, adesso avallato anche dalla Corte di Cassazione, fa esplicito richiamo alle teorie scientifiche secondo le quali i crostacei sono in grado di provare dolore e di averne memoria e ritiene pertanto che la detenzione di tali animali vivi a temperature prossime allo zero e con le chele legate configura il reato di maltrattamento di animali.
Forte del risultato ottenuto la LAV canta vittoria e rilancia: «La decisione della Corte di Cassazione rappresenta un pronunciamento giudiziario che potrà produrre due effetti : le Forze di Polizia dovranno intervenire in seguito alle denunce di cittadini e associazioni per le diffusissime analoghe situazioni in pescherie e supermercati, considerate finora normali, e il Parlamento dovrà emanare una norma di chiaro divieto».
(Amer)