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Cassazione: la madre può rimanere anonima, il padre non ha diritto a sottrarsi al test del dna

Il padre ha l’obbligo di riconoscere il figlio e non ha diritto a sottrarsi al test del dna, mentre la madre, oltre a poter ricorrere all’aborto (nelle modalità previste dalla legge), ha il diritto al parto anonimo e a non far conoscere le sue generalità sino alla morte. Secondo la Corte di Cassazione, che si è espressa sulla questione con la sentenza n. 13880/2017, in ciò non vi è alcuna disparità di trattamento e, per questo, ha rigettato la questione di legittimità costituzionale sollevata da un uomo dichiarato giudizialmente padre dopo aver rifiutato di sottoporsi all’indagine genetica.

La vicenda: il presunto padre si sottrae al test del dna, ma la Corte d’appello riconosce il rapporto di filiazione

Una donna, nata nel 1963, aveva portato in giudizio il presunto padre, affermando essere nata da una relazione che questi aveva avuto con sua madre nel 1962. L’articolo 269 del codice civile, infatti, afferma che “la paternità e la maternità possono essere giudizialmente dichiarate nei casi in cui il riconoscimento è ammesso. La prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo”. L’uomo aveva affermato di non ricordare di aver avuto una relazione sessuale con la madre, che aveva conosciuto in occasione delle lezioni di matematica che lei gli impartiva, e, in ogni caso, di non essere stato informato della nascita della presunta figlia. Quest’ultima si sarebbe fatta viva solo nel 2004 e negli anni successivi con lettere e messaggi recapitati alla segreteria telefonica con cui affermava di essere sua figlia e di aver bisogno di denaro.

In primo grado il tribunale di Siena aveva bocciato la domanda della donna, in quanto non vi era alcun elemento di natura indiziaria che potesse provare il rapporto di filiazione. La Corte d’appello di Firenze ha però successivamente ribaltato la sentenza, dichiarando l’appellante figlia del convenuto, in quanto disposta la consulenza tecnica d’ufficio genetica, l’uomo si era rifiutato di sottoporsi al test adducendo ragioni di salute. Secondo la Corte d’appello vi erano elementi di prova della relazione tra l’uomo e la sua insegnante in un’epoca compatibile con il concepimento. Anche la cugina aveva testimoniato che in famiglia era noto che la zia all’epoca avesse avuto una relazione con una persona molto più giovane. Inoltre i giudici hanno ritenuto ingiustificato il rifiuto dell’uomo a sottoporsi al test del dna per ragioni di salute, trattandosi di un semplice prelievo di saliva, per questo hanno ritenuto fondata la domanda di accertamento di paternità.

La Cassazione: non c’è alcuna disparità di trattamento tra uomo e donna

L’uomo, ricorrendo in Cassazione, ha eccepito l’illegittimità dell’articolo 269 del codice civile per contrasto con l’articolo 3 della Costituzione (che disciplina il principio di uguaglianza), sotto il profilo dell’“ingiustificata disparità del regime giuridico relativo alla maternità e alla paternità naturali”. Infatti mentre la donna può scegliere di non essere madre abortendo il feto (ai sensi della legge 194/198) o esercitando, alla nascita del figlio, il proprio diritto di rimanere anonima (ai sensi dell’art. 30, Dpr 396/2000), “l’uomo non ha diritto di scegliere di non essere padre, perché non ha la possibilità di rimanere anonimo e non può sottrarsi all’azione di cui all’art. 269 c.c.”. La prima sezione della Corte di Cassazione ha rigettato l’eccezione, dichiarandola manifestamente infondata, in quanto “le situazioni della madre e del padre, non sono paragonabili, perché l’interesse della donna a interrompere la gravidanza o a rimanere anonima non può essere assimilato all’interesse di chi, negando la volontà diretta alla procreazione, pretenda di sottrarsi alla dichiarazione di paternità naturale”. Il rifiuto alla paternità, infatti, è spesso dettato dalla volontà di sottrarsi agli obblighi economici e alle responsabilità che derivano dalla filiazione e questo interesse non è degno di tutela; il rifiuto alla maternità è invece collegato a ragioni di carattere personale, spesso connesse alle modalità con cui il figlio è stato concepito e ai rapporti con l’uomo, e tale interesse è degno di tutela perché rivolto a garantire la dignità umana e il rispetto della persona della donna. Dunque, la scelta legislativa di regolare in maniera differenziata situazioni tra loro diverse è ragionevole e non può lamentarsi alcuna disparità di trattamento.

Per la Suprema corte, inoltre, non vi era alcuna controindicazione medica nell’effettuazione del test del dna. Posto che nessuno può costringere una persona a sottoporsi al test del dna, se il presunto padre si rifiuta immotivatamente di effettuare il test, il giudice può ritenere provata la paternità e riconoscere il rapporto di filiazione.

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