La Corte di Cassazione, con una recente pronuncia, ha “chiuso un occhio” limitando la liceità della coltivazione della cannabis ad un numero limitato di piante
L’assunzione di stupefacenti, di qualunque natura, si sa, fanno male alla salute, a meno che non vengano utilizzate a fine terapeutico.
Se però qualcuno avesse nostalgia dell’epoca libertina dei “figli dei fiori”, niente paura: con una recente sentenza emessa dalla Corte di Cassazione, i nostalgici potrebbero rivivere un remake degli anni 70’ .
Ma vediamo insieme i dettagli che hanno portato la Suprema Corte a tale decisione.
Coltivazione cannabis: il caso
Il giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Caltagirone, all’esito di giudizio abbreviato, in data 23/04/2013, pronunciava sentenza di condanna nei confronti di un uomo per avere coltivato, all’interno della propria abitazione, 6 piantine di cannabis dell’altezza circa di 90 cm ciascuna, contenenti complessivamente un quantitativo di principio attivo pari a 1,070 grammi di THC puro, corrispondente a circa 42,8 dosi medie, alla pena di otto mesi di reclusione e di 2.000,00 euro di multa in relazione al delitto di cui all’art. 73, comma 5 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.
Con tale provvedimento, l’imputato veniva, invece, assolto in relazione alla detenzione di una pianta di cannabis già essiccata del peso di circa 7 grammi, nonché, di 2,5 grammi di sostanza stupefacente del tipo marjuana, celati in una scatola all’interno di una cassettiera; ciò sul presupposto che tale materiale fosse, in realtà, finalizzato ad un consumo esclusivamente personale da parte dell’imputato.
Avverso la pronuncia di primo grado, l’imputato ricorreva dinnanzi alla Corte d’Appello di Catania, lamentando che la coltivazione non era assolutamente idonea a ledere il bene giuridico protetto dalla norma invocata, atteso che lo stupefacente ricavabile dalle piantine non sarebbe stato destinato a terze persone.
Nel frangente l’appellante osservava, altresì, come le piante di cannabis costituivano il frutto di un’attività di coltivazione domestica e non di una coltivazione eseguita secondo le regole della buona tecnica agraria. Ciò che, nella sua prospettazione, avrebbe dovuto, quindi, portare alla piena assoluzione anche rispetto alla condotta di coltivazione.
Con sentenza in data 25/06/2015 la Corte d’appello territoriale adita, confermava la pronuncia di primo grado, sottolineando come la condotta di coltivazione ascritta all’imputato, considerato il quantitativo di marjuana ottenibile (pari a due volte la soglia consentita per la detenzione personale), dovesse ritenersi idonea ad offendere concretamente l’interesse tutelato dalla norma incriminatrice, attraverso il pericolo di una ulteriore diffusione della sostanza stupefacente prodotta.
Nell’occasione, la Corte territoriale, richiamandosi ad un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, ribadiva l’irrilevanza della distinzione tra coltivazione domestica e coltivazione tecnico-agraria.
Convinto delle proprie ragioni, l’imputato, avverso la sentenza di appello, proponeva ricorso per Cassazione.
Coltivazione cannabis: la decisione della Corte di Cassazione
La terza sezione penale della Suprema Corte, con la sentenza n. 36037, emessa il 22 febbraio 2017, ha accolto il ricorso, provvedendo all’annullamento della sentenza impugnata ed emessa precedentemente dalla Corte d’appello territorialmente competente, in linea con quanto disposto anche che dal giudice di prime cure.
I giudici di Piazza Cavour, si sono espressi, in primo luogo, in relazione alla pericolosità sociale dell’attività, ritenendo che: «la necessaria offensività della fattispecie in esame viene talvolta, declinata in maniera restrittiva, come mera idoneità della coltivazione a produrre la sostanza in vista del consumo».
Contrariamente a questa interpretazione “restrittiva”, secondo la Suprema Corte: «non può ritenersi sufficiente l’accertamento della conformità della pianta al tipo botanico vietato, proprio in quanto sia necessario accertare l’offensività in concreto della condotta. Quest’ultima, a sua volta, proprio in ragione della necessità di un concreto accertamento, è stata intesa nei termini di una dimostrazione della effettiva ed attuale capacità a produrre un effetto drogante, rilevabile nell’immediatezza alla stregua del riscontro della quantità di principio attivo ricavabile».
Proseguendo nella disamina, i giudici affrontano il problema sollevato relativamente al tipo di coltivazione effettuata, ritenuta dall’imputato non conforme ai canoni previsti per la distribuzione a terzi.
I Supremi Giudici, richiamando anche una precedente decisione della Consulta, emessa il 9 marzo 2016, n. 109, hanno fatto presente che nei casi come quello in considerazione, la produzione della pianta con effetti stupefacenti, non è «in grado, nel caso concreto, di recare alcuna lesione della salute pubblica» poiché «costituente “la risultante della sommatoria della salute dei singoli individui” (così la citata sentenza n. 190 del 2016 della Corte costituzionale), non avrebbe potuto essere concretamente vulnerata da una condotta destinata al consumo esclusivo di una sola persona; e, ancora, che alla descritta condotta non potesse essere ricondotta, per le medesime ragioni, una qualche idoneità a favorire la circolazione della droga e di alimentarne il mercato»
Pertanto, la condotta tipica – consistente, cioè, nella coltivazione di una pianta conforme al tipo botanico, la quale abbia, se matura, raggiunto la soglia di capacità drogante minima – è del tutto inidonea, in ragione del conclamato uso esclusivamente personale e della minima entità della coltivazione, a determinare la possibile diffusione della sostanza producibile.
Maria Teresa La Sala