Assolto con formula piena dalla Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 5439/2017 il dirigente dell’U.T.C. precedentemente condannato per aver rilasciato una concessione edilizia ritenuta illegittima
IL CASO
Il ricorrente, dirigente dell’U.T.C., era stato condannato in primo grado, in concorso con altri coimputati, per aver rilasciato un permesso di concessione edilizia ritenuto illegittimo a causa della mancanza dell’apposito nulla osta necessario ai fini dell’esecuzione degli interventi su di un edificio sito all’interno di un’area sottoposta a vincolo paesaggistico.
Alla luce di tale fatto veniva, pertanto, condannato in primo grado in concorso (colposo) per il reato di cui all’art. 40 cpv. c.p. in combinato disposto con gli artt. 44 lettera c) d.p.r. n. 380/2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) e 181 d.lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio). Sentenza che era stata successivamente confermata dalla Corte di Appello, avendo lo stesso rinunciato alla prescrizione di cui, invece, si avvalsero gli altri coimputati del procedimento medesimo.
E’ proprio il caso di dire che la rinuncia alla prescrizione non è stato un atto di poco conto e per questa impavida scelta uno “chapeau” è d’obbligo.
Ciò detto, le doglianze del nostro temerario dirigente dell’U.T.C. andarono spedite verso la Corte di Cassazione la quale in pieno accoglimento del ricorso dell’istante con la pronuncia n. 5439/2017 ha ribaltato le decisioni di primo e secondo grado pronunciandosi per l’annullamento della sentenza della Corte di Appello perché il fatto non sussiste.
Le norme interessate dalla sentenza di condanna, come è facile intuire, mirano a tutelare il paesaggio inteso quale porzione del territorio che in forza degli aspetti e caratteri che incorpora costituisce la rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali (in tal senso, ben si esprime l’art. 131 del Codice dei beni culturali e del paesaggio). Nello specifico:
- L’art. 27 d.p.r. 380/2001 pone a carico del dirigente o del responsabile del competente ufficio doveri di vigilanza al fine di assicurare la rispondenza alle norme di legge e di regolamento alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi imponendogli, se del caso, interventi per restaurare la situazione quo ante nelle ipotesi di inizio o esecuzione di lavori in difformità alla normativa vigente;
- L’art. 44 lett. c) d.p.r. 380/2001 (reato proprio i cui autori sono individuati dall’art. 29 del decreto medesimo – committente, costruttore e direttore dei lavori) punisce con l’arresto fino a due anni e l’ammenda da 15.493 a 51.645 euro colui che mediante interventi edilizi nelle zone sottoposte a vincolo storico, artistico, archeologico, paesistico, ambientale, in variazione essenziale, in totale difformità o in assenza del permesso, viola le disposizioni poste alla loro tutela;
- L’art. 181 d.lgs. 42/2004 punisce chiunque, senza la prescritta autorizzazione o in difformità di essa, esegue lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici;
LE RAGIONI DELL’ASSOLUZIONE
Giova, a tal proposito, chiarire i punti che hanno portato la Suprema Corte alla decisione in oggetto.
Quest’ultima fonda la propria pronuncia di assoluzione sul rilievo che nel caso di specie non appare configurabile una responsabilità ex art. 40 cpv c.p. per il reato di cui all’art. 44 lett. c) d.p.r. 380/2001 in capo al dirigente o responsabile dell’ufficio urbanistica del Comune sebbene titolare di una posizione di garanzia e dunque dell’obbligo di impedire l’evento.
Era stata, infatti, contestata al ricorrente una condotta commissiva realizzata mediante il rilascio della concessione edilizia illegittima.
Al riguardo la Suprema Corte – avallando il dato per cui è indubbio che il ricorrente rivesta una posizione di garante della regolarità del procedimento ex art. 27 d.p.r. cit. e che è altresì possibile un’ipotesi di concorso dell’extraneus per la violazione degli obblighi previsti dall’art. 29 del decreto medesimo in capo al committente, costruttore e direttore dei lavori – ha rimarcato l’elemento secondo cui l’art. 40 cpv. c.p. è norma applicabile solo in ragione di condotte di tipo omissivo non anche commissive; pertanto il richiamo di cui all’art. 40 cpv c.p. è ritenuto improprio dalla Corte.
Inoltre, a detta della Corte di Cassazione, non sarebbero stati individuati nella sentenza impugnata gli elementi di concorso (doloso o colposo) che farebbero discendere una responsabilità per il dirigente ex art. 29 d.p.r. 380/2001 “essendosi la Corte territoriale limitata ad evidenziare la illegittimità del permesso di costruire e a far derivare da tale illegittimità la responsabilità del tecnico comunale ai sensi dell’art. 40 cpv. cod. pen.”. In altre parole, per poter addebitare il reato in specie al ricorrente i giudici territoriali avrebbero dovuto accertare che l’extraneus (il dirigente dell’U.T.C.) avesse apportato, nella realizzazione dell’evento, un contributo causale rilevante e consapevole (sotto il profilo del dolo o della colpa).
Non pare infatti superfluo sottolineare come una condanna in assenza di tale accertamento rievocherebbe un’ipotesi di dolus o culpa in re ipsa la cui legittimità applicativa sconta diverse opinioni.
Infine, conclude la Corte di Cassazione ribadendo come “La funzione di dirigente dell’area tecnica comunale che ha rilasciato un permesso di costruire illegittimo, dunque, non implica, in assenza di elementi di fatto indizianti un concorso consapevole, o quantomeno colposo, nella condotta, una responsabilità omissiva nella realizzazione di opere illegittime, in quanto il dirigente non è previsto tra i soggetti attivi del reato proprio indicati dall’art. 29 d.P.R. 380/2001, e, ai sensi dell’art. 27 d.P.R. cit., riveste una posizione di garanzia limitata alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale ed alla demolizione delle opere abusive, non già di carattere generale”.
E’ per tali motivi che la Suprema Corte ha, dunque, annullato senza rinvio la sentenza della Corte di Appello pronunciandosi per l’assoluzione poiché il fatto non sussiste.
Antonio Colantoni