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Il Consiglio di Stato si pronuncia sui rapporti fra negato rinnovo del permesso di soggiorno e reato di truffa

Quali sono i rapporti fra il negato rinnovo del permesso di soggiorno ed il reato di truffa?

Rinnovo del permesso di soggiorno e reato di truffa: il caso

Un lavoratore straniero chiedeva per motivi di lavoro autonomo il rinnovo del permesso di soggiorno alla Questura di Milano, che con decreto 28 ottobre 2013 n. 8492 respingeva la richiesta. La motivazione era basata sulla condanna della Corte d’appello di Genova a carico del cittadino non italiano per i reati di truffa, commercio ambulante di articoli con marchio contraffatto, detenzione e commercio di materiale atto alla contraffazione ed alterazione di segni distintivi di prodotti industriali.

Presentato ricorso al Tar per la Liguria per l’annullamento del decreto di diniego del rinnovo del permesso di soggiorno (ricorso n. 49 del 2014), il Tribunale Amministrativo Regionale respingeva le istanze del ricorrente con sentenza n. 186 del 2015, compensando tra le parti le spese del giudizio.

Avverso la sentenza di primo grado del Tar veniva presentato ricorso al Consiglio di Stato contro il Ministero dell’Interno e la Questura di Milano (appello n. 4876 del 2015), chiedendo l’accoglimento del ricorso di primo grado in annullamento della sentenza del Tar Liguria.

Rinnovo del permesso di soggiorno e reato di truffa: la sentenza del Consiglio di Stato

Con la sentenza del 28 novembre 2016 n. 5014 il Consiglio di Stato ha preso posizione sui rapporti fra rinnovo del permesso di soggiorno e reato di truffa, respingendo il ricorso dell’appellante e compensando tra le parti le spese e gli onorari del secondo grado del giudizio.

Nelle motivazioni, il ricorrente specificava che nel suo caso andasse applicata una interpretazione costituzionalmente orientata della norma ex art. 9 del d.lgs. n. 286 del 1998, sottolineando come la condanna fondante il decreto di diniego del rinnovo fosse ormai datata (anni ’90), e come allo stesso tempo l’amministrazione non avesse tenuto in alcun conto i suoi legami familiari, avendo il ricorrente in Italia il suo unico fratello.

Il Consiglio di Stato ritiene non fondate le deduzioni dell’appellante, ed al riguardo si sofferma su due questioni: la rilevanza del precedente penale e la durata del permesso di soggiorno in relazione all’articolo 9 del d.lgs. n. 286 del 1998.

Per quanto riguarda il primo punto, i Giudici della Terza Sezione sono decisi nell’affermare come l’ambito di applicazione dell’art. 26, comma 7 bis, del d.lgs. 286 n. 1998 (introdotto dall’art. 21, comma 2, della legge 189/2002) comprenda anche “la reiezione della domanda di rilascio o di rinnovo del permesso nei confronti di chi sia stato condannato irrevocabilmente per i reati previsti dalle disposizioni del titolo III, capo III, sezione II, della legge n. 633 del 1941 e dagli art. 473 e 474 c.p. (che comprendono tutte le ipotesi di contraffazione, alterazione o indebito uso di marchi o di segni distintivi dei prodotti)”. Peraltro, non occorrono ulteriori motivazioni circa la pericolosità sociale del condannato.

In relazione poi alla portata dell’articolo 9 del d.lgs. n. 286 del 1998, il Consiglio di Stato richiama un proprio precedente – sentenza 23 settembre 2015, n. 4470 – che si riferiva alla sola – e specifica – richiesta della carta di soggiorno, e nel quale d’altronde si chiariva come il dettato della disposizione citata richiede che “l’eventuale diniego di rilascio del ‘permesso per soggiornanti di lungo periodo’ sia sorretto da un giudizio sulla pericolosità sociale, con una motivazione fondata anche sulla durata del soggiorno nel territorio nazionale e sull’inserimento sociale, familiare e lavorativo dell’interessato, escludendo l’operatività di ogni automatismo in conseguenza di condanne penali riportate”. Nell’ipotesi invece analizzata dalla sentenza dello scorso 28 novembre, non si trattava del provvedimento che ha esaminato la sussistenza dei requisiti per il rilascio della carta di soggiorno di lungo periodo.

Chiara Pezza

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