Secondo la Suprema Corte di Cassazione, se emergono difetti gravi nell’immobile, i lavori sono da rifare.
L’acquisto di una casa, si sa, è il sogno di tutti. Ma il peggior incubo per un acquirente, è quello di trovarsi un immobile che presenti diverse problematiche: crepe, avvallamenti della pavimentazione in mattonelle, scalfitture nell’intonaco e molto altro.
In tali casi, è legittimo chiedersi come possa tutelarsi il proprietario e se ha diritto o meno ad un risarcimento.
A questa domanda, ha dato risposta la Suprema Corte di Cassazione con una recente pronuncia.
Contratto di appalto e difetti gravi: il caso
Una società edilizia, veniva convenuta davanti al Tribunale di Verona, sezione distaccata di Legnago, dai proprietari di un immobile, deducendo di aver acquistato, con contratto del 22/12/1989, un appartamento compreso in un complesso residenziale costruito dall’impresa citata e di avervi rilevato, in seguito a sopralluogo, la presenza di gravi difetti, successivamente legittimamente denunciati, consistenti in crepe ed avvallamenti della pavimentazione in mattonelle.
Gli attori avevano chiesto la condanna della convenuta al risarcimento dei danni ex art. 1669 c.c., pari alla somma necessaria all’eliminazione dei vizi, oltre che all’importo correlato ai disagi sofferti. Espletata una CTU, il giudice di primo grado aveva condannato la società al risarcimento dei danni, oltre rivalutazione ed interessi.
La società, pertanto, ricorreva in appello dinnanzi alla Corte d’Appello di Venezia, che confermava la gravità dei difetti costruttivi riscontrati sulla base delle indagini tecniche eseguite (crepe, lesioni e cavilli su numerose piastrelle); difetti imputabili alla tecnica adoperata e alle caratteristiche qualitative delle piastrelle ed alle tensioni insorte nei sottostrati, che compromettevano il normale e pieno utilizzo della pavimentazione, e concretavano, pertanto, “gravi difetti” ai sensi dell’art. 1669 c.c. .
La società, sempre convinta delle proprie ragioni, promuoveva ricorso dinnanzi alla Corte di Cassazione.
Contratto di appalto e difetti gravi: la decisione della Suprema Corte
La Suprema Corte, con l’ordinanza n. 15846, pubblicata il 26/06/2017, ha rigettato il ricorso, confermando quanto già espresso sia dal giudice di prime cure che dal giudice di secondo grado.
Alla base della decisione della Cassazione, vi è l’ampliata applicazione dell’art. 1669 c.c., (così modificato con la riforma del 1865) che include tra i difetti, di cui il costruttore è tenuto a rispondere, «non solo le carenze costruttive dell’opera, intesa quale singola unità abitativa, che pregiudichino in modo grave il normale godimento, la funzionalità e/o l’abitabilità dell’immobile», ma «anche quelli che, pur non compromettendo la stabilità, totale o parziale, dell’edificio, possano essere, comunque, qualificati “gravi”».
Tipico esempio di tali difetti è l’utilizzo di materiali inidonei o l’esecuzione delle opere non a regola d’arte, anche se incidente su elementi secondari ed accessori quali i rivestimenti o la pavimentazione, purché sia riscontrabile un’incidenza negativa e considerevole sul godimento del bene e siano eliminabili solo con lavori di manutenzione e cioè opere di riparazione, rinnovamento o sostituzione.
Già in uno altro caso analogo la Suprema Corte si è recentemente espressa, a Sezioni Unite,sancendo che i gravi difetti di costruzione che danno luogo alle garanzie di cui all’art. 1669 c.c., sono riscontrabili «in presenza di qualsiasi alterazione che incida sulla funzionalità globale dell’immobile, o che ne menomi in modo considerevole il godimento, o ne pregiudichi la normale utilizzazione, in relazione alla sua destinazione economica e pratica» (Cass. Civ., S.U., 27/03/2017, n. 7756).
I giudici di Piazza Cavour, infine, confermando la sentenza di secondo grado e specificando che il vigente art. 1669 c.c., configura una responsabilità extracontrattuale sancita dalla legge al fine di promuovere la stabilità e solidità degli edifici, nonché delle altre cose immobili destinate per loro natura a lunga durata, e al fine di tutelare in tal modo l’incolumità personale, hanno previsto che l’ammontare del risarcimento «non deve essere necessariamente contenuta nei limiti di valore del bene danneggiato, ma deve avere per oggetto l’intero pregiudizio subito dal soggetto danneggiato, essendo il risarcimento diretto alla completa “restitutio in integrum” – per equivalente o in forma specifica – del patrimonio leso».
Pertanto, prosegue la Corte, «accertata la responsabilità dell’appaltatore ex art. 1669 c.c., il risarcimento del danno riconosciuto al committente per l’eliminazione dei difetti di costruzione dell’immobile ben può essere tale da consentirgli la completa sua ristrutturazione, comportando essa un’obbligazione risarcitoria per equivalente finalizzata al completo ripristino dell’edificio, e non una reintegrazione in forma specifica ex art. 2058 c.c.».
Cari costruttori, attenzione al principio della “regola d’arte”, che non è un’opinione e, se trascurato, potrebbe portare a guai seri.
Maria Teresa La Sala