Nel caos della gestione dei flussi migratori di questi mesi (o meglio: anni), delle polemiche politiche ad essi conseguenti, degli scandali finanziari da essi scaturiti, dai numerosi morti in mare (gli ultimi, pochi giorni fa, proprio alla vigilia della “Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato”, in occasione della quale il Pontefice ha voluto attirare l’attenzione soprattutto sulla vergognosa condizione dei bambini coinvolti, che sono “tre volte indifesi perché minori, perché stranieri e perché inermi, quando, per varie ragioni, sono forzati a vivere lontani dalla loro terra d’origine”) e- last but non least– dei dubbi sollevati sulla eventuale commistione, sotto certi profili, con il terrorismo internazionale, sembra riscuotere interesse e, entro certi limiti, poter essere foriero di possibili soluzioni al riguardo il relativamente nuovo strumento, poco conosciuto e, soprattutto, poco diffuso dai media, attuato già da alcuni mesi da alcune realtà di volontariato, dei “corridoi umanitari”.
Una idea tutta italiana, promossa dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), dalla Comunità di Sant’Egidio e sostenuto dalla Tavola valdese, completamente autofinanziato, che sta riscuotendo interesse anche in altri Paesi europei.
Corridoi umanitari: in cosa consistono
Tramite un protocollo di intesa con il governo italiano, le associazioni coinvolte inviano sul posto dei volontari, che prendono contatti diretti con i rifugiati nei paesi interessati dal progetto, predispongono una lista di potenziali beneficiari da trasmettere alle autorità consolari italiane, che dopo il controllo da parte del Ministero dell’Interno, rilasciano dei visti “umanitari” con Validità Territoriale Limitata. Questi ultimi, che costituiscono una deroga del tutto eccezionale al regime comune dei Visti Uniformi, vengono rilasciati dalla Rappresentanza diplomatica o consolare (in questo caso italiana) presente nel territorio di origine dell’eventuale beneficiario, quando, pur non in presenza di tutte le condizioni prescritte per il rilascio dei primi (Visti Uniformi), essa ritenga comunque sussistenti particolari motivi umanitari, o di interesse nazionale, o derivanti da obblighi internazionali o, comunque, di particolari ragioni di urgenza o necessità.
Così facendo, se da una parte si evita che i profughi si avventurino in viaggi piuttosto pericolosi e dall’esito incerto, dall’altra si riesce a fare una loro “selezione” all’origine, nel loro stesso territorio di provenienza, attraverso una attività di indagine, svolta dalle stesse autorità italiane, che consente già “in loco” di capire chi possa effettivamente versare in una situazione di necessità e chi no: una volta arrivati in Italia legalmente e in sicurezza, i suddetti (profughi, che, nelle more, stando a quanto riportato sul sito internet della stessa Comunità di Sant’Egidio “sono accolti a spese delle nostre associazioni in strutture o case. Insegniamo loro l’italiano, iscriviamo a scuola i loro bambini, per favorire l’integrazione nel nostro paese e aiutarli a cercare un lavoro”) potranno presentare domanda di asilo.
La protezione internazionale: la richiesta di asilo in Italia
Come anticipato, una volta giunto in Italia, il profugo può richiedere asilo nel nostro Paese presentando una domanda di riconoscimento dello status di rifugiato.
A tale istituto può accedere il cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza (ci si riferisce, in particolare, a considerazioni inerenti al colore della pelle, alla discendenza o all’appartenenza ad un determinato gruppo etnico), religione (incluse le convinzioni ateiste e la partecipazione/astensione a/da riti di culto celebrati in privato o in pubblico, sia singolarmente sia in comunità, altri atti religiosi o professioni di fede, nonché le forme di comportamento personale o sociale fondate su un credo religioso o da esso prescritte), nazionalità (non ci si riferisce esclusivamente alla cittadinanza ma anche, più semplicemente, all’appartenenza ad un gruppo caratterizzato da un’identità culturale, etnica o linguistica, comuni origini geografiche o politiche o la sua affinità con la popolazione di un altro Stato), appartenenza ad un determinato gruppo sociale (da intendersi costituito da membri che condividono una caratteristica innata o una storia comune, che non può essere mutata oppure condividono una caratteristica o una fede che è così fondamentale per l’identità o la coscienza che una persona non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi) o opinione politica (ci si riferisce, in particolare, alla professione di un’opinione, un pensiero o una convinzione su una questione inerente ai potenziali persecutori e alle loro politiche o ai loro metodi, indipendentemente dal fatto che il richiedente abbia tradotto tale opinione, pensiero o convinzione, in atti concreti), si trovi fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non possa o, a causa di tale timore, non voglia avvalersi della protezione del suo Paese.
Le medesime norme si applicano anche agli apolidi (cioè a quelle persone prive di nazionalità) che, per gli stessi motivi, non vogliono fare ritorno nel Paese nel quale avevano precedentemente la dimora abituale.
Ulteriori requisiti
Affinchè possa essere riconosciuto lo stato di rifugiato, fermo quanto sopra, occorrerà indagare ulteriori circostanze, ossia la qualità dei responsabili della presunta persecuzione e, quanto a quest’ultima, la natura degli atti in cui essa si potrebbe concretizzare.
Così, quanto ai primi (responsabili della persecuzione o del danno grave nel paese di provenienza dello straniero) essi dovranno necessariamente essere:
- lo Stato;
- i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio;
- anche soggetti non appartenenti allo Stato qualora, però, quest’ultimo si rifiuti di fornire protezione contro persecuzioni o danni gravi.
Quanto ai secondi, gli atti di persecuzione valutabili ai fini che qui interessano dovranno:
- essere sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali;
- costituire la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani, il cui impatto sia grave al punto da esercitare sulla persona un effetto analogo alla violazione dei diritti umani fondamentali.
In virtù di quanto detto, ed a titolo esemplificativo, potranno dunque essere ritenuti atti persecutori:
- gli atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale;
- i provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia o giudiziari, discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio;
- le azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie;
- il rifiuto di accesso ai mezzi di tutela giuridici e conseguente sanzione sproporzionata o discriminatoria;
- gli atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia.
La protezione sussidiaria
A quanto finora detto, occorre aggiungere che, nel caso in cui non ci fossero gli estremi per attribuire lo status di rifugiato ad uno straniero, qualora quest’ultimo corra un grave pericolo nel suo paese (idem per gli apolidi, con riguardo a quello- paese- dove avevano precedentemente la loro dimora abituale), può essere prevista una particolare tutela chiamata protezione sussidiaria.
Si tratta, come per l’asilo, di una forma di protezione internazionale, riconosciuta in presenza di danni gravi derivanti al richiedente quali:
- la condanna a morte;
- la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano;
- la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
Stando ai numeri dello scorso anno, con l’ultimo arrivo a Fiumicino, tra il 24 ed il 25 ottobre, di 128 profughi, sono state 400 le persone giunte in Italia con questa procedura: sicuramente, una goccia nell’oceano, come pure ha detto il presidente della Fcei, pastore Luca Maria Negro (che ha aggiunto: “Per questo, come promotori dell’iniziativa insieme alla Comunità di Sant’Egidio e alla Tavola valdese, non ci stanchiamo di chiedere alle chiese sorelle all’estero di tentare di replicare il progetto. Oggi siamo lieti di annunciare che sono in corso trattative avanzate sia in Francia e in Olanda, mentre in Germania e in Svizzera è stato dimostrato vivo interesse per l’iniziativa”), ma che certamente sembra costituire un valido strumento per poter regolamentare i flussi migratori, riconoscendo protezione a chi veramente fugga da situazioni di pericolo, come conviene a qualsiasi paese che si rispetti.
Certamente, però, guardando all’azione politica, essa dovrà essere condotta a più ampio raggio, cercando, al contempo, anche attraverso l’azione degli organismi internazionali a ciò deputati, di far sì che, queste situazioni di pericolo, cessino di esistere nei luoghi di origine: diversamente, saremo sempre destinati a dover fronteggiare le conseguenze, senza mai curarne (o limitarne) le cause. Rischiando di dover dar ragione a chi, in un recente passato, ha sostenuto che alcuni di essi (organismi internazionali) siano diventati «solo un club per gente che si ritrova, chiacchiera e si diverte».
Come ha concluso lo stesso Papa Francesco nel suo messaggio lanciato proprio in occasione della “Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato”, del 15 gennaio ultimo scorso, “È assolutamente necessario, pertanto, affrontare nei Paesi d’origine le cause che provocano le migrazioni. Questo esige, come primo passo, l’impegno dell’intera Comunità internazionale ad estinguere i conflitti e le violenze che costringono le persone alla fuga. Inoltre, si impone una visione lungimirante, capace di prevedere programmi adeguati per le aree colpite da più gravi ingiustizie e instabilità, affinché a tutti sia garantito l’accesso allo sviluppo autentico, che promuova il bene di bambini e bambine, speranze dell’umanità”.
Marco Valerio Verni