Spetta al giudice di merito quantificare il danno morale per i patimenti psicologici provocati da una violenta aggressione fisica, e la sua quantificazione non può esser nuovamente sindacata in Cassazione.
La Suprema Corte, con l’ordinanza 4535 del 22 febbraio 2017, rigetta il ricorso di un ragazzo vittima di violenze fisiche da parte di altri tre ragazzi. Secondo i difensori della vittima, i giudici di primo e secondo grado avevano mal stimato il danno non patrimoniale, non tenendo in debito conto l’intensità della sofferenza morale patita.
Danno non patrimoniale: i tre principi basilari
La Cassazione, con l’ordinanza in esame, fissa tre principi base in materia di risarcimento di danno non patrimoniale.
Il primo afferma che «il danno non patrimoniale è una categoria unitaria ed omnicomprensiva. Non esistono pregiudizi non patrimoniali tra loro “ontologicamente” differenti; esiste in iure la categoria del danno non patrimoniale, ed in facto le singole forme concrete che esso può assumere».
Il pregiudizio non patrimoniale causato da una lesione dell salute può manifestarsi in modi diversi: può consistere nella dolore fisico, nel patimento morale, nella forzata rinuncia ad attività quotidiane. Quali che siano le forme di manifestazione dei pregiudizi non patrimoniali, essi hanno tutti identica natura.
L’identità della natura, però, non esclude una valutazione, da parte dell’organo giudicante, delle peculiarità del caso concreto. Il giudice chiamato alla monetizzazione del grado di invalidità, potrà quindi discostarsi dallo standard del sistema “a punti”, tenendo conto, nella sua valutazione, delle concrete circostanze particolari.
Pertanto, i giudici della Cassazione, specificano che « per stabilire se il giudice di merito abbia rispettato o meno i criteri di liquidazione del danno non patrimoniale non si deve avere riguardo alle formule definitorie da lui usate». Occorre, invece, vagliare due aspetti: «quali siano stati i concreti pregiudizi dedotti dalla vittima e provati in giudizio e quali siano stati i pregiudizi dei quali il giudice ha tenuto conto nella operazione di monetizzazione».
Da quanto appena detto, appare chiaro il secondo principio: «non è consentito chiamare pregiudizi identici con nomi diversi, per pretenderne una doppia liquidazione».
Il terzo principio attiene alle doglianze del ricorrente in sede di legittimità: «colui il quale lamenti in sede di legittimità una sottostima del danno non patrimoniale da parte del giudice di merito, ha l’onere di indicare chiaramente quali sono stati i concreti pregiudizi dedotti e provati, ma non esaminati dal giudice di merito».
Le fasi della liquidazione del danno non patrimoniale
La Cassazione poi, osserva ancora che, nel vagliare il danno non patrimoniale, possono distinguersi due fasi:
- la prima consistente «nell’individuazione di un parametro standard uguale per tutti, necessario per garantire
parità di risarcimento a parità di danno»; - la seconda consistente nell’adeguare la misura standard alle specificità del caso concreto, con variazioni di tipo quantitativo o qualitativo.
La Corte d’Appello, utilizzando i parametri di cui sopra, ha ritenuto corretto l’operato del giudice di primo grado in ordine alla liquidazione del danno non patrimoniale. Il giudice di merito ha infatti tenuto conto delle modalità del fatto, richiamando la «brutalità e ferocia» dell’aggressione e delle conseguenze psichiche di essa, e del «dolore e sofferenza soggettiva» da essa causati.
La Cassazione ha dunque concluso per il rigetto del ricorso perché «stabilire se la misura del risarcimento concretamente liquidata sia stata equa o meno in rapporto alle specificità del caso concreto è questione squisitamente di fatto, riservata al giudice di merito e non prospettabile in questa sede».
Maria Rosaria Pensabene