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Danno da perdita parentale, si applicano i criteri vigenti al momento della liquidazione

Il ristoro del danno da perdita parentale va operato sulla base dei criteri praticati al momento della liquidazione. Cassazione Civile – Sentenza 28 febbraio 2017 , n. 5013

Con la sentenza in rassegna, n. 5013 del 28 febbraio 2017, la Corte di Cassazione è ritornata su un tema di grande attualità negli ultimi anni, ossia sui criteri che regolano ratione temporis il ristoro del danno da perdita parentale, offrendo, a sostegno del principio che si andrà ad analizzare, un conciso ma completo riepilogo delle questioni che involgono la liquidazione per equivalente del danno non patrimoniale e il sistema di tabelle elaborato da alcuni Tribunali, primo fra tutti il Tribunale di Milano.

Per comprendere il contenuto e i motivi della decisione è necessario, come sempre, procedere con il giusto ordine, muovendo dal caso in concreto sottoposto all’esame della Suprema Corte.

Il caso

Gli eredi di una donna defunta a seguito di un incidente stradale, vittoriosi in primo grado nei confronti dei coeredi del danneggiante, soccombevano parzialmente nel giudizio di appello promosso da uno di questi ultimi.

La Corte territoriale, difatti, dichiarava prescritto nei suoi confronti il diritto al risarcimento dei danni, poiché, considerata la qualità di coerede del danneggiante e la inapplicabilità dell’art. 1310 cod. civ., la raccomandata ricevuta dagli altri coeredi, obbligati parziari, ma non dall’appellante, era del tutto inidonea ai fini dell’interruzione della prescrizione.

Inoltre – e su questo aspetto si concentra il presente articolo –  la Corte d’Appello riteneva del tutto congrue le somme corrisposte dall’assicurazione nel 2006 a favore degli attori, eredi della donna defunta, a titolo di risarcimento del danno da lesione del rapporto parentale, e quindi non dovute le maggiori somme riconosciute a tale titolo dal Tribunale di prime cure.

Gli attori, soccombenti in appello, proponevano quindi ricorso per cassazione, affidandosi ai seguenti motivi.

I motivi di ricorso

In disparte il primo motivo di ricorso inerente la declaratoria di parziale prescrizione del credito, che esula dal tema di questa indagine, con un secondo motivo parte ricorrente censurava le modalità di liquidazione del danno non patrimoniale da lesione del rapporto parentale (o danno da perdita parentale) seguite nella sentenza in questa sede impugnata.

In particolare, il ricorrente si doleva sotto un duplice profilo: innanzitutto nella parte in cui la sentenza ha ritenuto congrue le somme versate dalla compagnia assicuratrice nell’anno 2006, in quanto comprese nel range medio di oscillazione previsto dalle tabelle del Tribunale di Milano dell’epoca, senza tener conto del fatto che, per una valutazione equitativa conforme al pregiudizio effettivamente subito (in ragione dell’età della vittima, del marito e delle figlie superstiti al momento dell’evento, del gravissimo sconvolgimento delle condizioni familiari e di vita), il danno avrebbe dovuto essere stimato in una misura superiore anche alla soglia massima di dette tabelle.

In secondo luogo – e qui si incentra la particolarità del caso -, per aver fatto applicazione delle tabelle di liquidazione vigenti al momento dell’offerta risarcitoria formulata dalla compagnia assicuratrice (2006) senza tuttavia tener conto della esigenza di attualizzazione del danno, e cioè della necessità di quantificazione dello stesso secondo i parametri in uso al momento della decisione (2014).

Il danno da perdita parentale

La sentenza in rassegna muove da un attento riepilogo del c.d. danno da perdita parentale, definito come danno non patrimoniale iure proprio del congiunto della vittima, concretantesi nello sconvolgimento dell’esistenza rivelato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita conseguenti al decesso del congiunto.
Più in dettaglio, secondo le efficaci parole della precedente sentenza Cass. 9 maggio 2011, n. 10107, esso è costituito dal “…vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter più fare ciò che per anni si è fatto, nonché nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti”.

Per converso, secondo costante giurisprudenza di legittimità resta radicalmente esclusa la configurabilità di tale danno quando dall’evento conseguano meri disagi, fastidi, disappunti, ansie, ovvero, in sintesi, la perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità della vita (Cass., 20 agosto 2015 n.16992; Cass., 16 febbraio 2012 n.2228; Cass., 13 maggio 2011 n.10527).

Diversamente da quanto sostenuto da alcuni (invero in netta minoranza), detto danno non può inoltre considerarsi esistente in re ipsa (ossia per il solo fatto dell’esistenza in sé del vincolo parentale), ma richiede invece “l’allegazione (e la verificazione) precisa e circostanziata dello sconvolgimento di vita patito e delle sue specifiche e concrete estrinsecazioni, non potendo invero risolversi in mere enunciazioni di carattere del tutto generico e astratto, eventuale ed ipotetico (v. Cass., 3 ottobre 2013 n.22585; Cass., 25 settembre 2012 n.16255; Cass., 7 giugno 2011 n.12273)”. Evidenti le ragioni a fondamento di tale tesi predominante, e a sfavore di quella contraria.

La liquidazione del danno da perdita parentale e le c.d. “tabelle di Milano”

Così perimetrato il danno da lesione del rapporto parentale, è evidente come la sua liquidazione (ovviamente per equivalente, aspetto importante nei termini in cui si dirà) sia imprescindibilmente rimessa ad una valutazione equitativa del Giudice, i cui criteri non possono che essere rimessi alla sua prudente discrezionalità.
Discrezionalità, per l’appunto, e non arbitrio: detti criteri, infatti, oltre a dover essere adeguatamente espressi e motivati nella sentenza e a dover evitare duplicazioni risarcitorie, devono necessariamente consentire la cd. personalizzazione del danno, ossia “una liquidazione adeguata e proporzionata che, muovendo da una uniformità pecuniaria di base, riesca ad essere adeguata all’effettiva incidenza della menomazione subita dal danneggiato nel caso concreto”. Si dovrà quindi tenere necessariamente conto per esempio della gravità del fatto, dell’entità del dolore patito, delle condizioni soggettive della persona, del turbamento dello stato d’animo, dell’età della vittima e dei congiunti all’epoca del fatto, del grado di sensibilità dei danneggiati superstiti, della situazione di convivenza o meno con il deceduto (Cass., 15 ottobre 2015 n.20895; Cass., 20 maggio 2015 n.10263; Cass., 8 luglio 2014 n.15491; Cass., 16 febbraio 2012 n.2228).

Ciò posto, come noto molti dei principali Tribunali d’Italia si sono pertanto dotati di un sistema di apposite “tabelle” allo scopo di dare una maggiore concretezza al concetto di “equità” da seguire in nella liquidazione dei danni non patrimoniali (tra cui il danno da perdita parentale), garantendo al contempo sia un’adeguata personalizzazione del danno in relazione alle specificità del caso concreto, sia il trattamento uguale di casi uguali.
Ciò tuttavia, come intuibile, ha di fatto favorito una maggiore uniformità solo all’interno del singolo Tribunale munitosi di un proprio sistema tabellare, o in cui si era comunque deciso espressamente di fare riferimento alle tabelle in uso presso altri Uffici Giudiziari.

Sin dall’inizio degli anni 2000 la Cassazione ha quindi dovuto prendere atto del fatto che, mentre alcuni uffici giudiziari si avvalgono del criterio equitativo puro, altri liquidano il danno in esame col sistema “а punto”, prevalentemente ricavato dalla media delle precedenti decisioni pronunciate in materia; alcuni liquidano unitariamente il danno non patrimoniale ed altri distinguono più voci; taluni pongono un tetto massimo ed uno minimo alla personalizzazione del risarcimento, altri non lo fanno. Si è insomma configurata quella che la S.C. stessa ha definito, con efficace espressione, “giurisprudenza a zone”, in conseguenza anche della diversità delle condizioni economiche e sociali dei diversi contesti territoriali.
Tuttavia, nonostante la valutazione del danno non patrimoniale richieda un’adeguata analisi delle circostanze del caso concreto nei termini sopra esposti, resta fermo il fatto evidente per cui non può certo ritenersi tollerabile una difformità di giudizio a fronte di casi analoghi: non risponderebbe ad equità che danni identici venissero liquidati in misura diversa poiché analizzati da diversi uffici giudiziari.

Per questo motivo, nel 2011 con la storica sentenza Cass. 7 giugno 2011, n.12408, la Corte di Cassazione ha sancito che lo strumento in grado di tradurre il concetto dell’equità valutativa, e quindi a consentire l’attuazione della clausola generale dell’art.1226 cod. civ., ed evitare (o quantomeno attenuare) il pericolo di ingiustificate disparità di trattamento profilabili in termini di violazione del principio di uguaglianza sancito dall’art.3 della Costituzione, sia il sistema delle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano, essendosi queste ampiamente diffuse sul territorio nazionale, ben al di fuori del confini del singolo distretto, e quindi aventi, proprio per il costante utilizzo nella metodologia degli operatori e nella stratificazione giurisprudenziale, una vera e propria “vocazione nazionale” (cfr. anche Cass., 20 agosto 2015, n.16992 e 15 ottobre 2015, n. 20895).

Il sistema tabellare meneghino, tuttavia, lungi dall’essere assolutamente rigido ed eccessivamente restrittivo (e per ciò stesso quindi ingiusto), e non essendo comunque consacrato in alcuna norma primaria (ragion per cui il problema della c.d. “giurisprudenza a zone” è stato solo in parte mitigato per effetto delle succitate pronunce della Cassazione), non impedisce affatto che il Giudice, nell’effettuare la necessaria personalizzazione del danno di cui si è detto, possa anche discostarsene e/o superare i limiti minimi e massimi stabiliti. Questo, tuttavia, solo al fine di garantire la massima personalizzazione del danno, e solo purché la specifica vicenda concreta si caratterizzi per la presenza di circostanze di cui la tabella non possa aver già tenuto conto, in quanto elaborata in astratto in base all’oscillazione ipotizzabile in ragione delle diverse situazioni ordinariamente configurabili secondo l’id quod plerumque accidit. Inoltre, il Giudicante dovrà ovviamente dare conto in motivazione di tali circostanze, e altresì di come esse siano state considerate ai fini della liquidazione finale (espressamente, Cass., 23 febbraio 2016 n. 3505).

Per converso, la liquidazione equitativa del danno da perdita del rapporto parentale è sindacabile in sede di legittimità in tre casi espressamente indicati dalla S.C.: a) quando l’ammontare quantificato si prospetti palesemente non congruo rispetto al caso concreto, in quanto irragionevole e sproporzionato per difetto o per eccesso rispetto a quello previsto dalle tabelle milanesi; b) quando il giudice di merito non espliciti i criteri assunti a base del procedimento valutativo adoperato; c) quando, nell’individuare la somma concretamente attribuibile nel range tra il minimo ed il massimo stabiliti in via astratta e generale dalle tabelle, non espliciti i parametri di giudizio e le circostanze che abbia considerato per addivenire alla quantificazione (Cass., 30 maggio 2014 n.12265; Cass., 17 aprile 2013 n.9231).

La decisione della Cassazione

Nella sentenza in rassegna, la Corte di Cassazione ha evidenziato che la pronuncia appellata, nel verificare la congruità della somma versata dalla compagnia assicuratrice responsabile civile ai ricorrenti a titolo di ristoro per il danno patito per la perdita del congiunto, si è correttamente riferita alle tabelle di Milano, e, nell’individuare il concreto importo risarcitorio nella forbice dei valori, minimo e massimo, stabiliti dalle richiamate tabelle, si è orientata per l’attribuzione di una somma collocata, per ciascuno dei superstiti danneggiati, nella fascia medio-alta. Ciò esclude già di per sé la configurabilità di un vizio di violazione di legge.
La Corte territoriale, inoltre, ha dato conto delle circostanze fattuali considerate (l’intensità del dolore, la subitaneità dell’evento morte) e altresì delle allegazioni meramente generiche svolte delle parti danneggiate sul concreto atteggiarsi del rapporto tra i familiari prima e dopo la perdita del congiunto.
La sentenza di merito, pertanto, è rispettosa del pressoché costante orientamento di legittimità sul punto, e si sottrae quindi ad ogni censura di natura motivazionale.

Ciò posto, la Cassazione ha sancito che anche la seconda doglianza dei ricorrenti, concernente la presunta erronea individuazione delle tabelle applicabili ratione temporis al caso, vada rigettata.
La Suprema Corte ricorda infatti come la principale difficoltà nell’operazione di liquidazione del danno da ristorarsi per equivalente (ossia mediante corresponsione di una somma di denaro in funzione succedanea) sorga a causa dell’ineludibile scarto temporale esistente tra l’epoca di verificazione dell’evento lesivo e quella della sua liquidazione.
Da qui la nota distinzione tra la c.d. aestimatio, cioè la determinazione dell’astratto valore del bene leso, e la c.d. taxatio, ovvero la traduzione, in espressione pecuniaria, di siffatto valore.

Ora, come si evince dalla motivazione della sentenza in rassegna, parte ricorrente si era richiamata ad alcuni precedenti di legittimità in cui si afferma l’obbligo dell’applicazione, nella quantificazione del danno da perdita del rapporto parentale, dei parametri tabellari vigenti al momento della decisione (Cass., 11 maggio 2012 n.7272; Cass., 17 aprile 2013 n.9231).
Per la Corte, tuttavia, tale principio per cui la stima e determinazione del danno vanno compiute secondo i criteri praticati al momento della liquidazione sarebbe un canone di valenza generale, destinato ad operare (e qui si percepisce la fallacia del ragionamento del ricorrente) in ogni ipotesi di liquidazione del danno: la nozione di “liquidazione del danno” andrebbe quindi intesa in un’accezione estesa, comprensiva non soltanto della determinazione dell’importo risarcitorio in via giudiziale (all’esito di una controversia) o convenzionale (ad esempio, per un accordo transattivo tra le parti), ma anche del pagamento spontaneo della somma ad opera della parte obbligata e accettato dal creditore.

Il ragionamento della Cassazione è peraltro confermato anche da un’argomentazione in contrario, ossia il fatto che, diversamente opinando, in quest’ultimo caso di pagamento spontaneo da parte della parte obbligata il danneggiato, ricevuta una somma idonea a compensare il pregiudizio sofferto, ben potrebbe in un momento successivo (ed anche a notevole distanza di tempo) “lucrare” su criteri di liquidazione più favorevoli nel frattempo affermatisi in via normativa o giurisprudenziale, pretendendo il maggior ristoro dovuto in ragione di questi ultimi.
Bene ha fatto quindi la Corte territoriale a valutare la congruità della somma motu proprio versata dal responsabile civile alla stregua delle tabelle di Milano vigenti all’epoca del pagamento.

Peraltro, per quanto riguarda i risarcimenti richiesti in base alle precedenti tabelle, la Cassazione, nella sentenza n. 9367/16, aveva già esposto il principio per cui “in tema di c.d. tabelle milanesi di liquidazione del danno, qualora dopo la deliberazione della decisione e prima della sua pubblicazione, sia intervenuta una loro variazione, deve escludersi che l’organo deliberante abbia l’obbligo di riconvocarsi e di procedere ad una nuova operazione di liquidazione del danno in base alle nuove tabelle, in quanto la modifica delle tabelle non integra un jus superveniens né in via diretta né in quanto dette tabelle assumano rilievo, ai sensi dell’art. 1226 c.c., come parametri doverosi per la valutazione equitativa del danno non patrimoniale alla persona“.

La Corte di Cassazione, pertanto, ha rigettato il ricorso proposto dai danneggiati, e ha sancito il seguente principio di diritto: “in tema di risarcimento danni per equivalente, la stima e la determinazione del pregiudizio da ristorare (ovvero del valore economico del bene illecitamente leso, compensato con la corresponsione di una somma di denaro in funzione succedanea rispetto alla perduta utilità) vanno operate alla stregua dei criteri praticati al momento della liquidazione in qualsivoglia maniera compiuta, cioè secondo i parametri vigenti alla data della pattuizione convenzionale stipulata tra la parti, del pagamento spontaneamente effettuato dal soggetto obbligato o della pronuncia (anche non definitiva) resa sulla domanda risarcitoria formulata in sede giurisdizionale o arbitrale, restando preclusa, una volta quantificato il danno con una di tali modalità, la applicazione di criteri di liquidazione (se del caso più favorevoli al danneggiato) elaborati in epoca successiva”.

Il testo integrale della sentenza, cui si rimanda, è reperibile al seguente link.

Davide Baraglia

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