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Detenzione di “sfollagente”: per la Cassazione non è reato

Le ultime indagini statistiche rivelano come un sempre maggiore numero di italiani abbia acquistato e detenga armi da difesa, e come siano in crescente aumento le richieste di licenze di porto d’armi.
A fronte di questi dati, che naturalmente evidenziano una crescente esigenza di “sicurezza”, si pongono invero delle questioni in ordine alla detenzione di determinate categorie di armi.
In Italia la materia è regolata dal T.U.L.P.S. (Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza) che disciplina il procedimento per il rilascio delle licenze di porto e detenzione di armi, che indica inoltre le autorizzazioni necessarie rilasciate dal Questore o dalla Prefettura territorialmente competenti, in assenza delle quali le ami si considerano detenute illegalmente, circostanza che integra il reato di “Detenzione abusiva di armi” di cui all’art. 697 c.p.
La questione di maggiore interesse, a tal punto, è comprendere quali siano gli oggetti che per legge possono considerarsi armi e per la cui detenzione è prevista una autorizzazione in modo da non incorrere in una sanzione penale, posto che il mercato offre numerosi strumenti che possono avere tale utilizzo e l’art. 38 del T.U.L.P.S. non offre una definizione dettagliata.
La Corte di Cassazione con la sentenza n° 31933/2017, depositata lo scorso 3 luglio dalla Prima Sezione Penale, interviene sul punto chiarendo cosa possa considerarsi “arma” gli effetti della legge penale attraverso l’interpretazione del combinato disposto degli articoli 704 e 585 del Codice Penale.
La vicenda oggetto della sentenza riguardava in particolar modo due “sfollagente” in acciaio, comunemente chiamati manganelli, rinvenuti in casa dell’imputato nel corso di una perquisizione e per i quali lo stesso non era in possesso di alcuna autorizzazione alla detenzione.
A seguito di denuncia da parte delle Autorità, il Tribunale di Vicenza condannava l’imputato per il reato di Detenzione abusiva di armi di cui all’art. 697 c.p. alla pena di euro 200 di ammenda, ritenendo lo sfollagente un’arma soggetta ad obbligo di denuncia.
La Suprema Corte, intervenuta su ricorso dell’imputato avverso la sentenza di condanna, richiama innanzitutto il testo dell’art. 704 c.p. che, al fine di definire cosa si intenda “armi” agli effetti della legge penale, rinvia espressamente all’art. 585, comma II n°1, c.p. a mente del quale per armi si intendono, oltre ovviamente a quelle da sparo, tutte quelle la cui destinazione naturale è l’offesa alla persona.
Proprio la destinazione naturale dell’oggetto costituisce, ad avviso dei Giudici di Legittimità, il corretto binario interpretativo per stabilire se si tratti di arma in senso proprio, la cui detenzione è soggetta a denuncia, o di “arma impropria” e in quanto tale esente da controllo da parte delle Autorità.
Nel caso del c.d. “sfollagente” la Corte precisa come questo non abbia come destinazione naturale l’offesa alla persona, potendo essere utilizzato anche solo per l’allontanamento o la separazione delle persone senza che ciò comporti alcuna offesa alla loro incolumità.
Pertanto la Suprema Corte assolveva l’imputato perché non essendo lo sfollagente un’arma in senso proprio ai sensi del combinato disposto degli art. 704 e 585 c.p., la sua detenzione non può considerarsi reato e non è dunque punibile ai sensi dell’art. 697 c.p.

Alessia Alongi

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