Dipendente in malattia fa il pizzaiolo, licenziato
“Ma tu vulive ‘a pizza,’a pizza, ‘a pizza…cu ‘a pummarola ‘ncoppa”, da sempre si canta a Napoli. Dai piedi del Vesuvio, tra i quartieri e le strette vie del centro fino alla collina del Vomero e il lungomare di Via Caracciolo, non v’è chi non veda in questa superba portata, l’essenza stessa del sublime incontro dei sensi. Un misto tra sacro e profano che dagli inferi di un forno rovente balza d’un fiato, nelle più paradisiache regioni del piacere. E guai a chiamarla focaccia!
Ma pare che “oltre Vesuvio” invece, la pizza più che lasciare stupiti, lasci senza lavoro.
E’, infatti, legittimo il licenziamento di un dipendente dell’azienda dei trasporti pubblici romana Trambus spa, sorpreso a lavorare in una pizzeria durante il periodo di malattia. Ciò è stato stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 24671/2016, che non ha avuto dubbi nell’ avallare la pena disposta dalla Corte di appello.
Il fatto
In effetti, il nostro pizzaiolo romano, proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale di Roma che aveva rigettato la sua domanda diretta ad accertare l’inefficacia, nullità o annullabilità e comunque la sproporzione della “destituzione” disposta nei suoi confronti, con ripristino del rapporto di lavoro e corresponsione del risarcimento del danno. Ma, appunto, anche la Corte Territoriale, rigettava la domanda dello sfortunato ( o poco attento) protagonista della nostra vicenda.
Dagli atti, infatti, emerge in maniera evidente che l’uomo veniva sorpreso, mentre era intento a prendere ordini, servire pietanze, calcolare e presentare conti nella pizzeria del paese in cui risiedeva. Il tutto mentre l’azienda presso cui lavorava regolarmente come conducente di bus lo sapeva a casa malato. Fatti che l’uomo ha poi confermato in sede di interrogatorio libero.
Non resta, quindi, che adire la Suprema Corte.
La Corte di Cassazione
Due le tesi su cui si concentra il ragionamento dei Giudici: la mancata dimostrazione da parte dell’imputato della compatibilità tra la malattia e l’attività svolta ed il carattere moralmente e socialmente disdicevole dello svolgimento di un’attività secondaria, pur in stato di malattia. Un atteggiamento, quest’ultimo, destinato a minare dalle fondamenta il rapporto di fiducia con il proprio datore di lavoro. In casi simili, infatti, rammentano i giudici di Piazza Cavour, citando un’analoga sentenza del 2016 (la numero 586), il dipendente assente per malattia ha l’onere di dimostrare “la compatibilità dell’attività con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa contrattuale e la sua inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie psico-fisiche”.
Elementi che, stigmatizza la sentenza, mancano completamente nel ricorso presentato dall’imputato, “tanto che non è neanche possibile evincere quale fosse la malattia dell’uomo”.
Pertanto, tutti respinti i cinque motivi del ricorso presentati dall’ex dipendente Atac: il ricorso è rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.
Considerato il carattere ingannevole di tutta la vicenda, verrebbe da canticchiare “Ma tu vulive ‘a pizza… ‘a pizza e niente cchiù…” compreso il proprio lavoro.
Mariano Fergola