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Droghe e criminalità organizzata: come può, la legalizzazione, contrastare il traffico clandestino

“Mi sembra che sia da dilettanti di criminologia pensare che legalizzando il consumo di droga scomparirebbe del tutto il traffico clandestino, così levandosi quest’unghia all’artiglio della mafia”. Così Paolo Borsellino nel lontano 1989, in un intervento che le cronache recenti hanno reso uno dei manifesti della campagna pro o contra legalizzazione delle droghe ‘leggere’.

Il riferimento è alla Canapa o Cannabis sativa, secondo la denominazione tecnica riproposta dalla legge n.242 del 2016 che ne legalizza la coltivazione, la trasformazione ed il consumo in forma ristretta secondo le finalità di cui al suo articolo 2.

In molti si sono espressi su questo tema, delicato, come tutti i temi sottendenti una non irrilevante questione etica. La discordanza tra addetti ai lavori (e non), ha portato ad una informazione fuorviante per l’opinione pubblica, impossibilitata a formarsi un esatto convincimento su una tematica che interessa trasversalmente il settore dell’economia, tanto quanto quelli della salute e della politica.

Legalizzare le droghe leggere può aiutare a combattere il traffico clandestino?

Impossibile dare una risposta unanimemente condivisa. L’intervento di Borsellino disincentivava soprattutto il pensiero che criminalità organizzata e traffico di stupefacenti fossero un’endiadi talmente inscindibile da costituire una la condicio sine qua non dell’altra.

Il business della mafia è talmente ampio e variegato da renderla, oggi, l’impresa numero uno in Italia. Un business stimato, nel 2009, in circa 73 miliardi di euro netti l’anno  e che oggi – anche in virtù del progressivo ampliamento del fenomeno nel contesto internazionale – si aggira addirittura sui 110 miliardi.

Da tempo, il settore più redditizio è quello del traffico di stupefacenti e, secondo quanto emerge dal rapporto finale 2015 del progetto Organised Crime Portfolio, (coordinato dal centro Transcrime dell’Università Cattolica di Milano) equivale a circa 28 miliardi di euro annui. Di questi, una percentuale decisamente piccola, ma non per questo irrilevante, è costituita dal traffico delle droghe leggere.

In tal senso si era espresso qualche mese fa Roberto Saviano sostenendo che legalizzare il possesso, la vendita (regolamentare) e la coltivazione della cannabis non avrebbe rappresentato un incentivo al consumo di questa sostanza – nociva, almeno al pari di alcool e fumo – bensì la regolamentazione del mercato, così da “sottrarlo all’illegalità”.

Secondo Saviano, il traffico di droghe, anche leggere, è uno dei principali collanti tra le organizzazioni terroristiche e le associazioni mafiose che in cambio degli approvvigionamenti di stupefacenti forniscono denaro o armi. Intervenire in tal senso non significherebbe abbattere questo traffico, ma porvi un freno. Inoltre – continua – “è dimostrato come tutti i Paesi che abbiano aperto alla regolarizzazione del mercato delle droghe leggere, abbiano registrato, al contempo, una netta diminuzione dei consumi”. Testimonianza ne può essere il Portogallo che ha visto dal 1999 al 2013 un decremento nei consumi dal 44 al 24%.

Non dello stesso avviso il Ministro della salute Lorenzin che a più riprese ha sostenuto che legalizzare avrebbe significato permettere il consumo “alla luce del sole” di sostanze illegali in quanto dannose. E contro gli appelli di Saviano, il Ministro ha richiamato proprio le parole di Borsellino, secondo il quale, una legalizzazione – per come allora concepibile in Italia – non avrebbe prodotto effetti positivi ed anzi, il mercato clandestino avrebbe investito le categorie più deboli (come i minori e i meno abbienti) ed incentivato il traffico di altre droghe più pericolose. Una visione corretta, ma che necessita di essere parametrata col contesto attuale.

Risulta complesso stabilire se legalizzare possa effettivamente sottrarre alla mafia i proventi derivanti dal traffico di queste sostanze che verrebbero recuperati da un malaffare comunque superstite, mediante investimento in altri settori. Altrettanto complesso è stabilire se una legge sulla cannabis legale possa attentare alla salute dei più giovani, incentivandoli all’abuso di sostanze dannose; quegli stessi giovani, però, che proprio per questo tipo di traffici vengono spesso adescati e sfruttati diventando “manovali dei clan”.

Tornano così, attuali, anche le parole di Raffaele Cantone, tra i favorevoli, secondo il quale “una legalizzazione intelligente potrebbe evitare il danno peggiore per i ragazzi, ovvero farli entrare in contatto con gli ambienti della criminalità”.

Secondo il Presidente dell’Anac, l’attuale sistema investe notevoli risorse – economiche e umane – a scopo repressivo, quando bisognerebbe riguardare maggiormente alla prevenzione. Così facendo, non soltanto il problema verrebbe in parte arginato, ma quelle stesse risorse potrebbero essere meglio impiegate nel contrasto al mercato delle altre droghe.

Dichiarazioni che hanno destato non poche polemiche, anche di personalità in prima linea nella lotta al crimine organizzato. Su tutti, il Procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri – fermamente convinto dell’inutilità della legalizzazione – ha dichiarato: “penso che uno Stato democratico non si possa permettere il lusso di liberalizzare ciò che provoca danni alla salute dei cittadini”.

Gratteri ritiene che la legalizzazione delle droghe leggere non servirebbe comunque a contrastare il potere delle cosche. Ogni 100 soggetti tossicodipendenti, solo il 5% fa abuso di queste sostanze, in larga parte minori, che rimarrebbero comunque impossibilitati ad accedere ai consumi per vie legali. Inoltre – continua Gratteri – “qualsiasi forma di dipendenza genera malattie, in particolare psichiche, ma genera anche ricatto”. La criminalità organizzata, oggi, è ad un livello tale da non risentire dell’eventuale mancanza sopravvenuta di questo mercato.

Tematica complessa e delicata dunque, che porta (e porterà) con sé gli strascichi dell’ennesima guerra di ideologie. La questione della legalizzazione delle droghe leggere, influisce sull’economia, sulla salute e sulla lotta alla criminalità organizzata in maniera tanto decisa quanto irrilevante. Quando ci si trova difronte a scelte forti, che possono ergersi ad apripista di scelte altre, – siano esse identificate come forme di progresso o di degenerazione –  sarebbe prima di tutto opportuno valutare se il nostro paese è abbastanza maturo da sopportarle. Il sol fatto della sussistenza della criminalità organizzata e delle dimensioni assunte dal fenomeno, porta a credere che l’Italia non possieda, oggi, questa maturità e che dunque il problema sia prima di tutto di natura sociale.

Francesco Donnici    

 

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