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Esame di avvocato: “fare i furbi”…è reato!

Richiede preparazione, ma a volte sembra essere un terno al lotto. L’esame di avvocato impegna ogni anno migliaia di partecipanti, tra i quali non manca chi vuol fare il “furbetto”. Ma gli “aiutini” possono avere gravi conseguenze, come sembra ribadire un recente pronunciamento della Cassazione.

 

La sentenza 10567/18 della VI Sezione Penale della Cassazione qualifica in termini di tentato abuso d’ufficio la condotta di chi prova a farsi aiutare all’esame di abilitazione alla professione di avvocato, in dispregio di ogni regola.

 

Il caso

Il GUP del Tribunale dell’Aquila  pronunciava nel 2013 sentenza di condanna a carico di una aspirante avvocatessa. La stessa aveva partecipato all’esame di abilitazione tenutosi nel Dicembre 2010, cercando di consegnare però un elaborato scritto da altri. Si avvaleva a tal proposito dell’ausilio di alcuni pubblici ufficiali, secondo un meccanismo ben orchestrato: un funzionario dell’Ufficio Controllo Informatico presso la Corte d’Appello dell’Aquila reperiva le tracce d’esame navigando su Internet dal proprio ufficio; quest’ultimo consegnava le tracce ad altro pubblico ufficiale (avvocato funzionario della Regione Abruzzo in servizio presso l’ufficio legislazione dell’Aquila) che invece provvedeva alla realizzazione dell’elaborato; il compito infine veniva dato ad un’addetta alla vigilanza per l’espletamento delle prove scritte per l’esame (e cancelliere presso il Tribunale di Sorveglianza dell’Aquila) che avrebbe provveduto alla consegna alla candidata. Un piano quasi perfetto insomma, rovinato soltanto  dal mancato superamento dell’esame e quindi da cause indipendenti dalla volontà dei pubblici ufficiali “infedeli”.

 

La vicenda giudiziaria

Il GUP abruzzese affermava la penale responsabilità dell’imputata, avendo la stessa “…concorso quale extraneus alle condotte di tentato abuso di ufficio rispettivamente poste in essere dai pubblici ufficiali”, consistenti in “…atti inidonei, diretti in modo non equivoco, a procurare all’imputata un ingiusto vantaggio patrimoniale consistente nel superamento dell’esame di abilitazione alla professione di avvocato, non riuscendo nell’intento”. La Corte d’Appello dell’Aquila, riformando solo parzialmente la condanna, confermava in sostanza la valutazione nel merito.

Nel ricorso per Cassazione proposto dalla difesa dell’imputata, si ritiene adeguata la diversa qualificazione della condotta dell’imputata ai sensi  dell’art. 56 c.p. , cioè in termini di desistenza volontaria, avendo l’agente abbandonato l’azione criminosa prima che questa fosse portata a compimento.

Si evidenziano a tal proposito taluni aspetti della fattispecie concreta che non sarebbero stati adeguatamente valorizzati nelle precedenti pronunce: l’imputata ad esempio non aveva introdotto alcun cellulare all’interno dell’aula di svolgimento della prova di esame; inoltre non poteva considerarsi idonea a fondare un giudizio di colpevolezza il fatto che l’imputata avesse conversato con l’addetta alla sorveglianza “incriminata” in ordine alle possibili modalità di comunicazione con l’esterno durante le prove nei giorni precedenti le prove stesse.

“Farsi aiutare” e abuso d’ufficio: interviene la Corte

La Suprema Corte non condivide tale lettura, qualificandola più che altro come “… sollecitazione a pervenire, attraverso una incursione del merito ad una diversa, e più favorevole lettura, delle risultanze probatorie poste a fondamento della sentenza impugnata”. Il “previo ed organizzato accordo di assistenza, ad ampio spettro” tra l’imputata e l’addetta alla sorveglianza considerava il ricorso al cellulare solo quale ipotesi residuale; tra l’altro le sentenze di merito avevano accertato la consegna del compito nel bagno dei locali ove si teneva la prova d’esame. Pertanto, non vi era alcuna traccia di una possibile desistenza attiva.

 

“Tolleranza zero” per un esame sempre più difficile

La sentenza 10567/2018 non si traduce in una particolare ed autonoma presa di posizione in ordine a condotte illegali che possono trovare terra d’elezione nell’esame di avvocato. Tuttavia, la sola conferma della precedente, rigorosa qualificazione, che chiama in causa il grave reato di cui all’art. 323 c.p.- e non quello di truffa, come invece riscontrabile in altri precedenti di merito-  per l’aspirante avvocato che riceve aiuti esterni e persino se l’esame non viene superato nonostante “l’aiuto”, non mancherà di influenzare il futuro svolgimento di un esame di abilitazione ormai dalle regole sempre più stringenti (si ricorda a tal proposito il futuro utilizzo di codici non commentati con la giurisprudenza).

 

Antonio Cimminiello

 

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