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Finge di aver pagato il canone Rai, è falso ideologico

Finge di aver pagato il canone Rai, è falso ideologico

E’ falso materiale in atto pubblico, per il cittadino che si procuri due falsi bollettini e dichiari così non solo di aver pagato il canone Rai, ma anche le sanzioni dovute per la tardività dell’adempimento. E’ quanto ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 4852/2017.

Il fatto

Il protagonista della nostra storia è un cittadino calabrese che si era procurato due falsi bollettini di versamento su conto corrente postale con tanto di timbro dell’ufficio locale competente, attestanti rispettivamente l’avvenuto pagamento del canone e delle sanzioni per il ritardato versamento. I due documenti erano stati inviati all’Agenzia delle entrate a dimostrazione della propria regolarità tributaria. La Corte di appello di Catanzaro si era espressa per la condanna senza alcuna attenuante per l’imputato, condannando il reo a sei mesi di reclusione. Contro la sentenza è stato proposto ricorso ai giudici di legittimità che evidenziava come i parametri da prendere in considerazione per escludere o meno la punibilità del soggetto, fossero solo quelli contenuti nell’articolo 133, comma 1 c.p., quali ad esempio le modalità dell’azione, la gravità del danno o del pericolo, l’intensità del dolo o grado di colpa.
In particolare si eccepiva la particolare tenuità del fatto e la conseguente depenalizzazione della condotta.

Il verdetto della Suprema Corte

La Corte di Cassazione, però, ha rigettato il ricorso, sulla falsa riga del ragionamento effettuato dai giudici di merito. Invero, già il giudice di primo grado aveva messo in evidenza la non trascurabile capacità a delinquere dell’imputato derivante dalle modalità dell’azione e dall’intensità del dolo. Secondo i giudici di merito, infatti, il comportamento doveva essere censurato per due motivi. In prima battuta il cittadino aveva inviato due bollettini falsi e compilati all’Agenzia delle entrate allo scopo di commettere, tra l’altro il delitto di truffa ai danni della Rai. Un comportamento sintomatico della evidente ingannevolezza della sua condotta, come tale diretta ad arrecare offesa non solo al bene giuridico della fede pubblica ma anche a quello del patrimonio dell’ente cui il tributo evaso sarebbe stato destinato.
I giudici della Suprema Corte hanno così rilevato che l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’articolo 131-bis c.p. non può essere dichiarata in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, e giudicati nel medesimo procedimento.
Una tale lettura si appalesa, dicono i giudici “ in linea con il principio di non meritevolezza di pena per un fatto oggettivamente tenue che innerva l’istituto di cui all’art. 131-bis cod. pen., poiché risponde alla logica indicata che il soggetto che abbia violato più volte la stessa o più disposizioni penali sorrette dalla medesima ratio puniendi non possa avvantaggiarsi della menzionata causa di non punibilità, atteso che, in tale evenienza, è la stessa norma a considerare il “fatto”, secondo una valutazione complessiva in cui perde rilevanza l’eventuale particolare tenuità dei singoli segmenti in cui esso si articola, connotato, nella sua dimensione “plurima”, da una gravità tale da non potere essere considerato di particolare tenuità”.
Applicando, pertanto, tale principio alla fattispecie in esame, secondo la Suprema Corte, non può che rilevarsi l’impossibilità di riconoscere al ricorrente la causa di non punibilità dallo stesso invocata (ovvero la tenuità del fatto), essendosi reso responsabile, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, di due reati della stessa indole, in quanto lesivi dello stesso bene giuridico, ossia quello della fede pubblica.
Oltre il danno, la beffa. Vietato toccare “MammaRai”.

Mariano Fergola

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