Roma, 6 lug. – “I ‘furbetti del cartellino’, come i 50 dipendenti del Comune di Piacenza, compreso quello che durante l’orario di lavoro andava a prostitute con il furgone comunale, e tutti gli altri ai quali la stampa ormai quasi quotidianamente dà giustamente risalto, è bene ribadirlo, non saranno licenziati. Nonostante siano stati colti in fragranza di reato. Sembra paradossale, ma è così. Siamo al paradosso tipico del diritto del lavoro italiano in cui dipendenti pubblici colti in fragranza di reato a seguito di un’indagine della Procura siano ancora al loro posto”. A spiegarlo, a Labitalia, Luca Failla, giuslavorista e co-fondatore di LabLaw.
”E’ vero che la cosiddetta riforma Brunetta autorizza il licenziamento per i casi gravi di abusi come quelli in questione – ricorda – in cui non si deve più attendere la sentenza passata in giudicato ma si può procedere al licenziamento anche con sentenza non definitiva, ma la prassi delle pubbliche amministrazioni è in senso opposto, ossia quella di sospendere i dipendenti coinvolti e la stessa procedura disciplinare fino alla sentenza penale definitiva che arriverà solo a distanza di molti anni (se non interviene prima il patteggiamento con buona pace della condanna)”.
“Il tutto come consentono ancora oggi – rimarca – sia i contratti collettivi di comparto che, per i casi di ‘particolare complessità’, lo stesso articolo 55 Ter del decreto legislativo 165/01, che anche i recenti decreti Madia hanno ritenuto di non modificare come sarebbe stato invece auspicabile”.
“Con la conseguenza, ancora oggi, che in presenza di procedimento penale e magari con l’arresto degli indagati, con buona pace della riforma Madia e della certezza del diritto, la Pa, solitamente molto cautelativa, non procederà mai al licenziamento degli indagati, preferendo non rischiare e attendere come sempre accaduto in passato, l’esito definitivo del giudizio penale. Non a caso, solo il 3% delle azioni disciplinari si è concluso con un licenziamento su un totale di 8.259 procedimenti nel 2015”, avverte.
”Solo per fare un esempio – continua Failla – si pensi alla vicenda dei 13 impiegati e dei funzionari dell’Agenzia delle Entrate di Asti accusati nel maggio del 2016 anche loro di essere ‘furbetti del cartellino’. La direzione regionale dell’Agenzia delle Entrate, a seguito delle indagini dei carabinieri, era intervenuta pesantemente disponendo sanzioni disciplinari con sospensioni dal lavoro dai 15 ai 60 giorni, prima di attendere la conclusione del procedimento penale. Ebbene, a dicembre i giudici avevano archiviato le accuse per ‘infondatezza della notizia di reato’. Questo sul piano penale. Sul piano civile, poi, il Giudice del lavoro ha annullato le sanzioni disciplinari inflitte ai dipendenti e condannato l’ente pubblico a pagare gli stipendi non pagati oltre le spese legali”.
“Sebbene i recenti decreti Madia non consentano in futuro il licenziamento anche solo in presenza della sentenza di condanna di primo grado, nessuna Pa si arrischierà a licenziare dei dipendenti in assenza di una condanna definitiva”, dice il giuslavorista.
“Troppo alto il rischio – prosegue Failla – di una assoluzione poi in appello o un annullamento in Cassazione, con la probabilità poi di vedersi reintegrare i dipendenti a distanza di anni (con responsabilità magari davanti alla Corte dei Conti in capo ai funzionari responsabili). Meglio allora attendere che la ‘giustizia penale’ faccia il suo (lento) corso con buona pace dei furbetti che al massimo saranno sospesi; al massimo, ma continueranno ad essere pagati come prevedono peraltro quasi tutti i contratti collettivi di comparto siglati dalle organizzazioni sindacali”.
“La situazione diventa ancora più paradossale – sottolinea – nel caso di patteggiamento ove eventualmente concesso. Come noto, per la giurisprudenza più diffusa, un’eventuale sentenza di patteggiamento in sede penale ex articolo 444 Cpp non costituisce vera e propria sentenza di condanna. Di conseguenza, è pressoché impossibile che un eventuale patteggiamento della pena, ove concesso, possa avere rilevanza quale prova della giusta causa di licenziamento con l’effetto immediato del reintegro in servizio, come spesso accaduto nelle aule dei Tribunali del lavoro in questi anni, dove i Giudici hanno quasi sempre reintegrato i lavoratori coinvolti”.
“Si veda anche la recente vicenda della dirigente del Consorzio Venezia Nuova (Il Mose) dove il Giudice del lavoro ha liquidato l’enorme cifra di 1 milione e 500 mila euro a titolo di risarcimento per licenziamento illegittimo a una dirigente licenziata dopo essere stata rinviata a giudizio e aver patteggiato per corruzione, restituendo, tra l’altro, la somma di 600 mila euro”, conclude.
(Tri/Adnkronos)