Il diritto di critica, legittimamente esercitato dal dipendente nei confronti del datore di lavoro, non integra giusta causa di licenziamento. (Cass. 26 ottobre 2016, n. 21649)
Il caso
La questione posta all’attenzione dei Giudici della Suprema Corte riguardava la vicenda di un dipendente licenziato a causa della critica che aveva mosso nei confronti del proprio superiore.
Il lavoratore, infatti, aveva indirizzato una lettera alla propria datrice di lavoro denunciando una serie di comportamenti scorretti ed offensivi in proprio danno allegando, altresì, parere pro veritate a firma di un avvocato penalista.
L’excursus giudiziario
Il dipendente ricorreva in giudizio avverso il licenziamento, che, in primo grado veniva, tuttavia, ritenuto legittimo dal Giudice.
In Appello la situazione veniva ribaltata e la Corte territoriale escludeva la sussistenza della giusta causa.
La Suprema Corte, confermando la pronuncia della Corte d’Appello, ha evidenziato la palese inidoneità del comportamento contestato a ledere definitivamente la fiducia alla base del rapporto di lavoro, integrante violazione del dovere posto dall’art. 2105 c.c., tale da costituire giusta causa di licenziamento (Cass. 10 dicembre 2008, n. 29008).
Il legittimo diritto di critica del dipendente
I giudici, con questa importante pronuncia, hanno ribadito l’illegittimità di un licenziamento, conseguenza del mero esercizio del diritto di critica del dipendente nei confronti del proprio superiore.
La Corte ha, a tal proposito, ricordato che in tema di esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, sia necessario che il prestatore (anche nel caso in cui il suo comportamento si traduca in una denuncia in sede penale, la cui legittimazione si fonda sugli articoli 24, primo comma e 21, primo comma,della Costituzione) si sia limitato a difendere la propria posizione soggettiva, senza travalicare, con dolo o colpa grave, la soglia del rispetto della verità oggettiva con modalità e termini tali da non ledere gratuitamente il decoro del datore di lavoro o del proprio superiore gerarchico e determinare un pregiudizio per l’impresa (Cass. 8 luglio 2009, n. 16000; Cass. 10 dicembre 2008, n. 29008).
Nel caso di specie, la lettera del dipendente incarnava una corretta modalità del legittimo esercizio del diritto di critica.
E ciò per il rispetto dei limiti di continenza sostanziale (vista la ravvisata corrispondenza a verità dei fatti denunciati, in esito ad articolato ragionamento argomentativo) e di continenza formale (per il tenore corretto e civile delle espressioni usate e senza diffusione all’esterno dell’ambito aziendale, così da escludere ogni lesione all’immagine e al decoro della società datrice).
Domenica Maria Formica