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Quando la violenza dentro gli allevamenti raggiunge soglie intollerabili: Italcarni Srl, quattro patteggiamenti e due condanne

La condanna di Italcarni Srl: quattro patteggiamenti e due condanne

ItalcarniVi riporto una vicenda che non vi piacerà, che farete fatica a leggere: perché non piace a nessuno prendere coscienza di fatti tanto ordinari quanto violenti e dannosi (e più che coscienza, forse, reale consapevolezza). Iniziamo dalla fine: la storia legata all’azienda Italcarni Srl di Ghedi, nominato il “macello degli orrori”, si chiude ufficialmente il 13 febbraio 2017 con due condanne e quattro patteggiamenti dinnanzi il Gup di Brescia. L’ex amministratore del macello, Federico Osio, ha patteggiato una condanna a due anni e sei mesi. Il patteggiamento ha riguardato anche tre suoi dipendenti: un anno e dieci mesi per Bruno Ferrari, un anno e otto mesi per Mohammed Ablouche e Ndrimic Hoxha. Altrettanto scalpore ha fatto la condanna di due veterinari dell’ASL di Brescia: due anni per Gian Antonio Barbi, accusato di maltrattamenti sugli animali (art. 544 ter del codice penale) e falso in atti pubblici, un anno e sei mesi per Mario Pavesi di nuovo per falso in atti pubblici ed anche minacce ai sensi dell’articolo 336 del codice penale (violenza o minaccia ad un pubblico ufficiale, che prevede la reclusione dai sei mesi ai cinque anni). Quest’ultimo infatti non solo ha minacciato una collega veterinaria che ha dato il via all’inchiesta, ma ha anche falsificato i registri delle visite periodiche previste dalla legge.

A rendere pubbliche queste informazioni, lo stesso giorno tramite comunicato stampa, è stata in primis la LAV, la Lega Anti Vivisezione, costituitasi parte civile nel processo penale. L’Onlus infatti ha denunciato non solo lo sconvolgente coinvolgimento dei veterinari pubblici nel processo, i quali hanno commesso reati gravissimi in virtù del loro stesso codice deontologico, ma anche la correlazione dei maltrattamenti inflitti alle cosiddette “vacche a terra”, alla presenza di un’elevatissima e pericolosa carica batteriologica della carne (fino a 50 volte superiore al consentito, come attestato dall’IZS di Torino).

La vicenda del “macello degli orrori”

La storia del macello di Ghedi inizia già più di un anno prima, a seguito delle drammatiche inchieste della procura di Brescia, pubblicate poi su diversi giornali, talmente gravi da aver spinto il Ministro della Salute Lorenzin ad aprire una task force Ministero-Nas per controlli diffusi sui macelli di bovini nel bresciano, dopo il sequestro di quello di Ghedi. Il servizio shock fu mandato in onda su Servizio Pubblico nel novembre 2015 dalla giornalista Giulia Innocenzi (http://www.serviziopubblico.it/2015/11/italcarni-dentro-il-macello-degli-orrori/ attenzione, video dalle immagini forti), che dedica da qualche anno il proprio lavoro al tema della produzione del cibo di origine animale. serv

Ad ottobre 2016 ha pubblicato “Tritacarne”, il frutto della raccolta di numerose inchieste, testimonianze reali e di indagini coraggiose anche all’interno degli allevamenti stessi, dimostrazione del fenomeno, a larga scala, che riguarda quasi tutto il made in Italy e che ha implicazioni peggiori di quelle immaginabili. Nello stesso, un capitolo è dedicato proprio al “macello degli orrori”, prima delle condanne suddette. La giornalista spiega infatti come, dopo aver visto la notizia del sequestro del macello bresciano, si sia interessata alla vicenda e abbia cominciato la sua inchiesta, che mi appresto a riportarvi. Il suddetto macello era specializzato in quelle che vengono chiamate, appunto, “vacche a terra”. Questa nomea è dovuta al loro status fisico: parliamo infatti di quelle mucche, in prima battuta da latte, che, arrivate a fine carriera, non sono più in grado di garantire una produzione ottimale e che non conviene curare, e che dunque vengono macellate. A terra perché gli animali, per il forte stress e per l’eccessivo sfruttamento dopo pochi anni di vita non sono più in grado di deambulare per strappi muscolari, lesione dei nervi degli arti, fratture scomposte, indebolimento generale etc. Questo è quanto riportato nell’annotazione del Corpo forestale dello Stato del Comando provinciale di Brescia rispetto all’attività di polizia giudiziaria svolta nel mese di maggio 2015 sulla società Italcarni. Ma non è questo il maltrattamento di animali previsto dal nostro codice penale. Infatti per questi bovini, intrasportabili per legge, è prevista una macellazione d’urgenza sotto la supervisione di un veterinario. Tuttavia nel macello Italcarni veniva usato un metodo diverso, costato caro al proprietario dell’azienda: alle vacche sui camion veniva legata la zampa ad una catena agganciata ad un muletto, che trascinava le mucche sull’asfalto verso la linea di macellazione. Risparmiando i dettagli, dopo il sequestro del macello, la giornalista si reca dal sindaco di Ghedi, Lorenzo Bodi, il quale non si stupisce dell’accaduto: in seguito verrà fuori la sua parentela con Osio (era infatti suo cognato).

L’Istituto zooprofilattico di Torino ha, come detto, trovato una carica batterica così elevata rispetto al consentito da certificarla come invendibile, ma non solo: sono state ritrovate anche due salmonelle pericolose per l’uomo (Livingstone e Agama). Secondo i consulenti veterinari della procura di Brescia i motivi potevano essere due: gli animali erano già in cattivo stato di salute oppure sono stati macellati contra legem, senza il rispetto della normativa igienica prevista (dove il trascinamento stesso avrebbe favorito l’imbrattamento del pelo e della pelle dell’animale con materiale fecale, secondo quanto scritto nella richiesta di sequestro preventivo della Procura della Repubblica di Brescia, n. 6471/2015). allevamenti-intensivi Nell’inchiesta che vede il coinvolgimento di Italcarni una vacca, arrivata al macello, era stata sottoposta dalla veterinaria (che sarà in seguito vittima delle minacce) ai prelievi previsti dalla legge, i quali hanno rilevato tracce di antibiotico. L’antibiotico viene generalmente dato agli animali in via preventiva, in modo da farli arrivare vivi al macello e sottoporli solo ai controlli di prassi pre macellazione e non a quelli richiesti dalla veterinaria: il giorno dopo, le minacce del collega, il quale vantava un interesse “personale” al riguardo; dopo l’ispezione del macello da parte della procura, per conto dell’ASL c’era ancora Pavesi nella struttura: quest’ultimo però viene solo spostato in un altro macello dalla ASL e, nonostante fosse in quel momento imputato, continuò a lavorare. Anche il macello aveva riaperto, con l’ex moglie di Osio alla gestione. Solo adesso Osio è stato condannato a due anni e sei mesi, Pavesi ad un anno e sei mesi. Sembrerebbe che oggi sempre più Italiani si rendano conto dei sistemi di morte che stanno dietro a questi allevamenti, dove Italcarni non è un caso sporadico, che, oltre ad idealizzare gli animali a qualità di non più che oggetti, mettono a repentaglio la salute di chi mangia carne. Questo anche grazie alle denunce, alla sensibilizzazione, all’opera di chi, come questa giornalista, dedica il proprio lavoro e tempo (talvolta anche rischiando) a questioni che sembrano sopite nelle menti di chi non vuole vedere.

Il comunicato stampa della LAV

“Finalmente lo scandalo del macello Italcarni fa i conti con la giustizia – commenta la LAV, parte civile nel processo, assistita dall’Avv. Carla Campanaro – Una condanna clamorosa, con risvolti che riguardano tutta la collettività: animali in gravissime condizioni, non più in grado di reggersi sulle zampe che, anziché essere abbattuti in allevamento come prevedono le norme senza sottoporli a tali sofferenze, venivano scaricati e spinti con trattori o muletti, trascinati con catene pur di farli macellare comunque. Ebbene, i consumatori di carne devono essere consapevoli del trattamento riservato agli animali destinati al macello. Ci auguriamo che questa condanna porti alla chiusura del macello Italcarni, passibile, alla luce di questa condanna, di chiusura per omesso controllo da parte della Asl di Brescia: un atto dovuto, richiesto e previsto dalla regolamentazione sui controlli veterinari.”

Cristina Ciulla

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