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Legge Pinto incostituzionale

La Legge Pinto è la normativa vigente nel nostro ordinamento giuridico volta a contrastare i ritardi e i tempi eccessivamente lunghi della giustizia, assicurando un rimedio indennitario ai cittadini danneggiati da tali indebiti ritardi. Tuttavia, ad avviso della Corte di Cassazione e della Consulta, tale normativa non sarebbe adeguata ad assicurare in forma sufficiente una lotta alle lungaggini della giustizia italiana.

Legge Pinto: i profili di incostituzionalità

Con ordinanza del 10 dicembre 2016, la Corte di Cassazione, sezione sesta civile, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo- nota come Legge Pinto).

L’art. 4 della Legge Pinto, nella versione censurata, prevedeva che «La domanda di riparazione può essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva». Quindi in base alla norma, dichiarata ora incostituzionale, il giudizio volto ad ottenere l’equa riparazione poteva essere instaurato, a pena di improcedibilità, solo dopo la conclusione, con pronuncia definitiva, del processo in cui è maturato il ritardo significativo.

La questione di costituzionalità ha tratto origine da una vicenda comune. Alcuni ricorrenti si erano rivolti alla Corte d’Appello di Perugia per ottenere l’equa riparazione del danno non patrimoniale loro derivato dall’irragionevole durata del giudizio instaurato dinanzi al TAR del Lazio nel 1997 e definito con decreto di perenzione nel 2013. L’adita Corte d’appello aveva dichiarato la domanda improponibile, precludendo quindi l’accesso alla giustizia indennitaria, e tale pronuncia era stata confermata dalla medesima Corte d’appello in sede di opposizione, atteso che il decreto di perenzione non era ancora divenuto definitivo al momento dell’instaurazione del giudizio.
Adita per la cassazione del decreto che aveva deciso sull’opposizione, la Suprema Corte di Cassazione, dichiarava di condividere l’interpretazione dell’art. 4 della legge Pinto seguita dalla Corte d’appello di Perugia, in quanto ormai assurta a “diritto vivente”.

Ad avviso della Cassazione, quindi, la regola per cui il giudizio di equa riparazione non può essere avviato prima che sia divenuta definitiva la pronuncia resa all’esito del processo contestato, è interpretazione corretta del testo normativo. Tuttavia, la Corte dubita della legittimità costituzionale della norma della Legge Pinto, nella parte in cui differisce l’esperibilità del rimedio e, per di più, la non reiterabilità della domanda di equa riparazione prematuramente proposta, ravvisando un pregiudizio alla effettività del rimedio.

Le norme costituzionali che risulterebbero violate sono gli artt. 3, 24, 111, e 117 Cost., anche con riferimento alla normativa CEDU. In sostanza, la Corte di Cassazione censura la norma proprio nella parte in cui condiziona la proponibilità della domanda di equa riparazione alla previa definizione del procedimento presupposto.

La Corte Costituzionale sulla Legge Pinto

Chiamata a pronunciarsi sulla questione di costituzionalità, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 88 del 21 marzo 2018, pubblicata il 26 aprile 2018, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge Pinto, nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione possa essere proposta in pendenza del procedimento presupposto.

In realtà, già in precedenza, scrutinando la stessa questione di legittimità costituzionale, la Corte aveva già riscontrato la lesione dei citati parametri costiuzionali, evidenziando la necessità che l’ordinamento si doti di un rimedio effettivo a fronte della violazione della ragionevole durata del processo, secondo la valutazione del legislatore sulla congruità dei mezzi per raggiungere un fine
costituzionalmente necessario. Tuttavia, la legge n. 208 del 2015 di modifica della legge Pinto, pur introducendo una serie di rimedi preventivi quali condizioni di ammissibilità della domanda indennitaria, non si era rivelata sufficiente a risolvere il vulnus costituzionale riscontrato.

La ratio della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 4 della legge Pinto è dunque evidente e spiegato dalla Consulta: se la normativa in questione è volta a presidiare l’interesse a veder definire in un tempo ragionevole le istanze di giustizia, rinviare alla conclusione del procedimento presupposto l’attivazione dello strumento – peraltro, l’unico disponibile ad oggi– volto a rimediare alla sua lesione, seppur a posteriori e per equivalente, significa inevitabilmente sovvertire la ratio per la quale è concepito, connotando di irragionevolezza la relativa disciplina.

Martina Scarabotta

 

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