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Lesioni in allenamento, niente risarcimento per un giocatore di basket

Lesioni in allenamento, niente risarcimento per un giocatore di basket

 

Il gioco, si sa, se non è maschio, come dicono gli esperti, è anche poco intelligente. E sotto questo aspetto, la storia ne ha tracciate di leggende, spesso anche al limite della violenza, ma è pur vero che durante quel romanzesco lasso di tempo, dove si parte alla pari e si chiude con vincitori e vinti, in ogni caso, tutto è ammesso fino a prova contraria. Le moviole, oppio dei popoli, servono solamente a chi, nella propria disillusione, tenta di trovare un senso, dove il senso non c’è. E non potrebbe essere altrimenti, visto che nella mente di tutti (o del serial killer) resteranno per sempre i pugni di Mohammed Ali, i calci rotanti di Paolo Montero e le gomitate al fulmicotone del gigante Kevin Garnett, tanto per citarne alcune.

In tema di infortunio, quindi, in uno scontro di gioco, la responsabilità non sussiste se le lesioni sono la conseguenza di un atto posto in essere senza la volontà di ledere e senza la violazione delle regole dell’attività.
E’ quanto ha stabilito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n.8553/2017.

Il fatto

Il protagonista della nostra storia, un giovane giocatore di basket, infortunatosi nel corso di uno scontro fortuito durante una partita di allenamento, essendo stato colpito da un pugno sul setto nasale riportandone la frattura delle ossa, chiedeva all’associazione sportiva dilettantistica di cui faceva parte, la condanna al risarcimento dei danni.
La Corte di Appello di Milano, agendo in totale riforma della decisione di primo grado, senza modificare la qualificazione giuridica della domanda ricondotta dal giudice precedente, nella responsabilità ex art. 1218 c.c. da “contatto sociale”, fondava la propria decisione sui fatti riportati negli atti di parte ed incontestati, ritenendo che la descrizione del quadro probatorio, fornisse in maniera evidente, la prova liberatoria dell’associazione sportiva.

La decisione della Suprema Corte

E si arriva dinanzi la Suprema Corte. L’argomento centrale svolto dal ricorrente si fonda sulla asserita omessa prova da parte dell’associazione della predisposizione di “tutte le misure idonee ad evitare il fatto”, e ripropone l’argomento posto a base della decisione di primo grado, secondo cui “non è sufficiente la prova negativa della mancanza di colpa, occorrendo la prova positiva di aver adottato tutte le cautele e le precauzioni necessarie perchè il fatto non si verifichi”. Sul punto, i giudici di piazza Cavour, chiariscono che l’affermazione secondo cui “la prova della mancanza di colpa” non sarebbe sufficiente ad esonerare l’associazione dalla responsabilità del danno, viene a prefigurare una ipotesi di responsabilità oggettiva (analoga a quella della responsabilità per fatto altrui di cui all’art. 2049 c.c.) che non trova alcun riscontro normativo nell’art. 1218 c.c. e neppure nell’art. 2948, commi 2 e 3 c.c., alla stregua della interpretazione che di quest’ultima norma ha fornito in molteplici casi precedenti la stessa Corte, secondo cui la presunzione di responsabilità di cui all’art. 2048 c.c. non è assoluta, come se si trattasse di ipotesi di responsabilità oggettiva, ma configura una responsabilità soggettiva aggravata in ragione dell’onere incombente all’insegnante o al precettore di fornire la prova liberatoria, onere che risulta assolto in relazione all’esercizio, da accertarsi in concreto, di una vigilanza adeguata all’età e al normale grado di comportamento dei minori loro affidati.
Nel caso di specie, quindi, sempre secondo la Suprema Corte, il Giudice di appello ha fondato la ricostruzione della fattispecie sulla stessa descrizione dei fatti emergente dagli atti processuali di parte, evidenziando come lo stesso danneggiato avesse escluso una volontà lesiva nell’atto compiuto dall’altro giocatore nel corso della partita di allenamento di basket, mentre appariva incontestato, che l’incidente si fosse verificato nel corso di un allenamento fra giocatori appartenenti alla stessa associazione sportiva, che i giocatori fossero sedicenni, che fossero presenti due istruttori e che l’evento era seguito da un’azione di gioco, per l’effetto di un intervento difensivo dell’altro giocatore.
Tutto ciò, quindi, ha pienamente assolto l’onere della prova liberatoria della non imputabilità dell’evento lesivo a difetto di vigilanza, sotto il duplice profilo: sia quello della idoneità delle misure preventive, sia quello della repentinità e non evitabilità dell’evento che in quanto l’evento lesivo si
era verificato nel corso di un’azione di gioco come tale, evidentemente non predeterminabile nelle sue modalità e nei suoi esiti.

Il principio di diritto elaborato dalla Corte

Il Collegio, pertanto, in materia di responsabilità per il danno cagionato nello svolgimento di attività
sportiva dal soggetto sottoposto a vigilanza dell’insegnante o precettore, elabora il seguente principio di diritto, secondo cui “il criterio per individuare in quali ipotesi il comportamento che ha
provocato il danno sia esente da responsabilità civile sta nello stretto collegamento funzionale tra gioco ed evento lesivo, collegamento che va escluso se l’atto sia stato compiuto allo scopo di ledere, ovvero con una violenza incompatibile con le caratteristiche concrete del gioco, con la conseguenza che sussiste in ogni caso la responsabilità dell’agente in ipotesi di atti compiuti allo specifico scopo di ledere, anche se gli stessi non integrino una violazione delle regole dell’attività svolta; la responsabilità non sussiste invece se le lesioni siano la conseguenza di un atto posto in essere senza la volontà di ledere e senza la violazione delle regole dell’attività , e non sussiste neppure se, pur in presenza di violazione delle regole proprie dell’attività sportiva specificamente svolta, l’atto sia a questa funzionalmente connesso. In entrambi i casi, tuttavia il nesso funzionale con l’attività sportiva non è idoneo ad escludere la responsabilità tutte le volte che venga impiegato un grado di violenza o irruenza incompatibile con le caratteristiche dello sport praticato, ovvero col contesto ambientale nel quale l’attività sportiva si svolge in concreto, o con la qualità delle persone che vi partecipano”.
In conclusione, quindi, il ricorso viene rigettato ed il soccombente condannato alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità.
“Non fa male! Non fa male! Non fa male”, sarebbe stato meglio ascoltare tali consigli del coach Duke, rivolgendosi a Rocky, durante l’incontro con Ivan Drago. Altro che gioco maschio ed intelligente.

Mariano Fergola

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