Cassazione, Sez. II, sentenza n. 15815/2017: “Non integra il delitto di appropriazione indebita, ma un mero inadempimento di natura civilistica, la condotta del promittente venditore che, a seguito della risoluzione del contratto, non restituisca al promíssario acquirente l’acconto sul prezzo del bene promesso in vendita“
Come già noto ai più, il contratto preliminare è quel contratto con cui le parti si impegnano alla stipula di uno successivo, già definito nei suoi elementi essenziali.
A tale tipologia contrattuale, sovente, la prassi commerciale vede accompagnarsi la corresponsione da parte del promissario acquirente di una parziale somma di denaro nei confronti del venditore, il tutto per simboleggiare l’impegno delle parti alla stipula del futuro contratto.
Ma cosa accade quando le parti risolvono il contratto preliminare e, nonostante il versamento dell’acconto, l’accipiens (colui che riceve la somma) non la restituisce?
Or bene, in una simile fase patologica del rapporto contrattuale entra in scena il diritto civile, senza però dimenticare che nel codice penale l’art. 646 sanziona l’appropriazione indebita di denaro una cosa mobile altrui da parte di colui che a qualsiasi titolo ne abbia possesso.
Può tale norma entrare in gioco in una vicenda connotata ab origine da elementi di natura civilistica?
Fatta questa breve premessa di carattere generale, entriamo adesso nella vicenda in esame poiché la Corte di Cassazione con la sentenza n. 15815/2017 in commento fornisce il proprio responso al quesito suesposto.
IL FATTO
La Corte di appello aveva confermato l’assoluzione, perché il fatto non sussiste, nei confronti di un soggetto imputato del reato di cui all’art. 646 e 61 n. 7 c.p. (appropriazione indebita aggravata dall’aver cagionato alla persona offeso un danno patrimoniale di rilevante gravità) per essersi appropriato – non avendola restituita – della somma di € 52.500,00 che il promissario acquirente gli aveva versato in acconto del prezzo di un preliminare successivamente risolto.
Contro la decisione dei giudici di secondo grado veniva dunque proposto ricorso per cassazione sulla base della tesi accusatoria secondo cui le somme consegnate in acconto prezzo non possono considerarsi patrimonio originario dell’accipiens in quanto, essendo consegnate con chiara finalità di destinazione, sono suscettibili di appropriazione.
IL REATO
Art. 646 c.p. “Appropriazione indebita”:
Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a milletrentadue euro.
IL RESPONSO DELLA CORTE DI CASSAZIONE
Con un’argomentata sentenza, peraltro richiamante autorevoli precedenti giurisprudenziali delle SS.UU., la Sezione II della Corte di Cassazione con la pronuncia n. 15815/2017 ha ritenuto non fondato il ricorso, rigettandolo sulla scorta dei motivi di seguito indicati.
Sin da subito preme alla Corte sottolineare come l’essenza del reato di appropriazione indebita consiste nella lesione del diritto di proprietà o di altro diritto reale mediante l’abuso di cosa o denaro altrui e rilevava, attraverso il richiamo ad una pronuncia delle SS.UU., che “nell’apropriazione indebita il denaro o la cosa mobile di cui l’agente si appropria, non fanno mai parte ab origine del “patrimonio” del possessore, ma si tratta sempre di denaro o di cose di “proprietà” diretta od indiretta di altri, che pur confluendo per una determinata ragione nel “patrimonio” dell’agente, non divengono, proprio per il vincolo di destinazione che le caratterizza, di sua proprietà” (SS.UU. sent. n. 1327/2005).
E’ configurabile pertanto il reato di cui all’art. 646 c.p. qualora “la somma entra ab extrinseco a far parte del patrominio del possessore e con questo non si confonde proprio perchè connotata da un vincolo specifico di destinazione“
Il vincolo di destinazione della somma di denaro, in tal senso, risulta dirimente.
Successivamente, la Suprema Corte si concentra sul dato dell’altruità della cosa o del denaro che, nel diritto penale, differentemente dal settore civilistico, non coincide con l’altrui proprietà, ma con il predetto vincolo di destinazione ad uno scopo cui altri ha interesse.
Poste tali premesse di carattere squisitamente sostanziale, è poi la stessa Corte a porsi la questione se l’acconto-prezzo corrisposto dal promissario acquirente relativo a un preliminare abbia un vincolo di destinazione e quindi sia configurabile il reato di cui all’art. 646 c.p. ovvero sia solo ipotizzabile un inadempimento di natura civilistica stante la fungibilità del danaro.
In risposta a tale quesito la Corte di Cassazione, avallando altresì quella parte della giurisprudenza che nell’ipotesi di mancata restituzione della caparra negava l’esistenza del reato in esame, ha ritenuto che l’assenza tanto nell’acconto quanto nella caparra di alcun impiego vincolato impedisce la configurazione del reato di cui all’art. 646 c.p. residuando solamente gli estremi di un inadempimento di natura civilistica.
Conclude, pertanto, rigettando il ricorso e affermando il seguente principio di diritto:
“Non integra il delitto di appropriazione indebita, ma un mero inadempimento di natura civilistica, la condotta del promittente venditore che, a seguito della risoluzione del contratto, non restituisca al promíssario acquirente l’acconto sul prezzo del bene promesso in vendita”
Antonio Colantoni