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Morte per un gavettone: prevedibile condanna penale

Morte per un gavettone: prevedibile condanna penale

Un gavettone che causa la morte di chi lo riceve, può costare una condanna penale. E’ quanto ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n.47979/2016.

Dissapori tra vicini di casa che si risolvono in tragedia e ti ritrovi a raccontare la storia di un gavettone che diventa letale. C’è dell’assurdo eppure è cosi. Talvolta, nelle morti che si raccontano, c’è sempre un sottile filo di inverosimiglianza: probabilmente è proprio descrivere la fine di un essere umano ad essere estremamente complicata da rappresentare. Ma quando l’evento è per sua stessa natura travagliato, da pura e congenita irrazionalità, si può solamente, in estremo silenzio, vagliare la propria assurda natura.

Il fatto

Lo strano assassino della nostra storia, aveva lanciato da una finestra una “busta di plastica piena d’acqua”, provocando la morte di un’anziana donna, occorsa per insufficienza acuta cardio-respiratoria.
Il “gavettone”, evidenziano i giudici di legittimità, era stato volontariamente effettuato dall’imputato, dalla finestra della propria abitazione, posta al secondo piano del palazzo in cui abitava, al fine di intimorire la vittima che si trovava in quel momento seduta davanti al portone di casa propria e che fu anche colpita.
Ma per comprendere in maniera organica e soprattutto procedere ad una particolareggiata esegesi processuale di questa illogica storia, dobbiamo fare un passo indietro, rispetto alle aule di Piazza Cavour. Infatti, in Corte d’Appello, l’originaria imputazione di omicidio colposo veniva riqualificata ex art. 586 c.p., rubricata come “Morte o lesioni come conseguenza di altro delitto”, ma il giudice a quo doveva dichiarare il non doversi procedere nei confronti dell’imputato in quanto il reato era estinto per prescrizione, confermando, in ogni caso la condanna al risarcimento del danno in favore delle parti civili.

Il giudizio dinanzi la Corte di Cassazione

In Cassazione, l’imputato ricorrente, sostiene non esservi prova con elevato grado di probabilità quanto al ricondurre l’evento alla propria condotta, lamentando che la conclusione del giudice di merito si era fondata su presupposti fattuali non solo mai processualmente verificati (quali l’altezza della finestra dalla quale è stato effettuato il lancio, il peso della busta, la posizione della vittima, il suo effettivo attingimento), ma in contrasto con la rilevata assenza di segni sul corpo della donna, dall’altro su considerazioni puramente congetturali, non potendosi logicamente far derivare dal rapporto di conoscenza con l’anziana vittima, la conoscenza delle patologie cardiache di cui si assume che soffrisse, congetture, afferma la difesa, superate dal richiamo a massime di esperienza che rischiano di attrarre nella sfera della colpevolezza ogni comportamento che possa ingenerare stress emozionali (come, per assurdo, anche il suono di un clacson).
Ma per i giudici di legittimità “Non v’è dubbio, della condotta del ricorrente (lancio del gavettone dall’alto per intimorire la vittima) nè circa il fatto che la vittima soffrisse di cardiovascolopatia sclerotica e neppure quanto alla causa immediata del decesso, ossia l’insufficienza acuta cardio-respiratoria.
Sulla riconducibilità dell’evento alla condotta, proseguono i giudici “ la Corte di appello, da un lato, fa proprie le considerazioni del Tribunale che, utilizzando massime di esperienza, aveva affermato che l’essere attinti improvvisamente da un involucro contenente dell’acqua che si rompa al contatto con il corpo del destinatario determina conseguenze di aritmia, è fenomeno naturale che ciascuno può sperimentare su di sé”, circostanza confermata anche dal consulente del PM che aveva spiegato in termini scientifici il meccanismo provocato da uno stimolo emozionale intenso sul sistema endocrino.

Condotta omissiva o commissiva

Per la Corte di Cassazione, anche se è vero che il giudizio controfattuale governa sempre l’accertamento di sussistenza del rapporto di causalità, è altrettanto vero che tale giudizio si atteggia diversamente a seconda che l’evento sia imputabile a condotta omissiva oppure commissiva dell’imputato. In effetti, nel primo caso l’agente può solamente intervenire sul processo causale, impedendolo sul nascere, con l’azione doverosa, verso il risultato atteso. Per utilizzare una metafora che renda più efficace il concetto, egli può solo cambiare la storia del fatto, evitando che si avveri oppure piegando il corso degli eventi, verso un approdo che preservi il bene tutelato dalla lesione cui andrebbe altrimenti incontro. Ma se non lo fa, la condotta omessa non appartiene all’esperienza sensibile perché semplicemente non esiste in “rerum natura”. Sicchè in questo caso, per poter attribuire l’evento all’agente è necessario che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, si possa affermare con elevato grado di credibilità razionale che l’evento non avrebbe avuto luogo o avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. Nel secondo caso, invece, l’agente è parte attiva del rapporto causale che innesca lui stesso. In questa eventualità, quindi, egli è nella storia del fatto, la sua azione è parte dell’esperienza sensibile realmente percepita come tale dai protagonisti del fatto e da chi è chiamato a ricostruirlo. Il giudice, in questo caso, non deve impegnarsi nella ricostruzione di un fatto immaginario perché mai esistito, ma deve addentrarsi nel fatto stesso, ripercorrendone ogni singolo passaggio: egli è lo storico del fatto. Questa circostanza, diversamente dalla prima, implica che il giudizio controfattuale non si deve basare su criteri probabilistici perché qui non si ipotizza un evento solo immaginabile ma uno realmente accaduto, sicchè ogni elemento che scientificamente può spiegarlo è una sua potenziale causa, sia essa preesistente, concomitante o successiva all’azione dell’autore. Per cui, una volta acclarata l’attitudine dell’azione posta in essere dall’imputato a innescare un meccanismo lesivo dell’incolumità fisica è sufficiente astrarre tale azione dal contesto in cui è stata posta in essere per poter affermare che senza di esso tale meccanismo non si sarebbe attivato. Non v’è dubbio, quindi, che l’azione dell’imputato ha innescato un meccanismo potenziale idoneo a provocare, alla luce delle concause preesistenti (la patologia cardiaca) e dell’età della vittima, il decesso di quest’ultima.
Non risulta nemmeno dalle allegazioni difensive che nell’arco di tempo tra l’evento e la morte si siano inseriti meccanismi autonomi di sovrapposizione al decorso causale.

La prevedibilità dell’evento

Ciò premesso, proseguono i giudici: “Quanto alla concreta prevedibilità dell’evento, soccorre il principio di diritto secondo cui in tema di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto, la morte è imputabile alla responsabilità dell’autore della condotta sempre che, oltre al nesso di causalità materiale, sussista la colpa in concreto per violazione di una regola precauzionale (diversa dalla norma che incrimina la condotta delittuosa del reato-base) e con prevedibilità ed evitabilità dell’evento, da valutarsi alla stregua dell’agente modello razionale, tenuto conto delle circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall’agente reale.

Inoltre, la stessa Corte di Appello, aveva ritenuto la prevedibilità in concreto della condotta, avuto riguardo alla sua portata lesiva e allo spavento che ne sarebbe derivato (il lancio dal secondo piano di una busta piena d’acqua che ha persino colpito la vittima), all’età avanzata di quest’ultima (più che ottuagenaria), al rapporto di conoscenza pluriennale con l’imputato che era in grado di apprezzare lo stato di declino fisico.

La conclusione

Pertanto, concludono i giudici “non è manifestamente illogico, trarre dalla dinamica del fatto, dal contesto in cui si è verificato, dall’età della vittima e dai rapporti personali con l’imputato, la conclusione della prevedibilità in concreto dell’evento, che cioè il lancio improvviso e violento di una busta piena d’acqua, posto in essere a fini intimidatori, potesse cagionare reazioni fisiche prevedibilmente pregiudizievoli per la salute di una persona anziana”.
Il ricorso, quindi, viene respinto e tutta questa assurda vicenda, poteva con un pizzico di buon senso, essere evitata con il famigerato confronto dialettico, modalità di negoziazione sempre più improbabile, nell’era dello scrivi e commenta a chilometri di distanza. Paura all’orizzonte, urge un rimedio.

Mariano Fergola

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