L’eterna polemica sui vantaggi fiscali di cui godrebbe la Chiesa Cattolica è destinata a rivivere in virtù della recente pronuncia della Cassazione n. 25586 del 2016, con la quale tuttavia è stata negata l’applicazione della norma che consente in favore degli enti equiparati a quelli di beneficenza ed istruzione un dimezzamento dell’aliquota normalmente applicata all’imposta IRES.
Non basta la semplice qualifica formale di ente ecclesiastico per godere di vantaggi fiscali. La Corte di Cassazione- Sesta Sez. Tributaria afferma tale principio di diritto con la sentenza 25586/2016 in tema di imposta sul reddito delle società (IRES).
Il caso
La questione ruota tutta attorno all’esatta applicazione dell’art. 6 Dpr 601/73. Questa norma riconosce un vantaggio fiscale in favore degli enti equiparati a quelli di beneficenza ed assistenza- come gli enti ecclesiastici, connotati da finalità di culto o religione- che consiste nel dimezzamento dell’aliquota in punto di determinazione dell’imposta IRES. Nel caso di specie, la Commissione Tributaria Regionale del
Piemonte nel 2015, ugualmente alla decisione di primo grado, aveva ritenuto pienamente applicabile tale norma in favore del Pensionato religioso “Rosa Govone” (in quanto “…struttura ricettiva che accoglie esclusivamente studentesse lavoratrici per brevi periodi di tempo con evidenti obiettivi sociali”),e per tale ragione aveva annullato l’avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle Entrate aveva accertato al contrario una maggiore imposta Ires.
L’intervento della Cassazione: la qualifica formale non è sufficiente
La Sesta Sezione Tributaria della Corte di Cassazione accoglie le censure avanzate dall’Agenzia delle Entrate, ritenendo anch’essa in particolare che in tale vicenda l’applicabilità del beneficio sarebbe stata riconosciuta secondo un criterio meramente soggettivo, e cioè la qualifica dell’ente , senza invece considerare la natura dell’attività svolta in concreto. Al contrario, l’art. 3 d.p.r. 601/1973 richiede ai fini della sua operatività una verifica sull’attività svolta, e cioè “…che l’attività in concreto esercitata dagli enti medesimi non abbia carattere commerciale, in via esclusiva o principale, e, inoltre, in presenza di un’attività commerciale di tipo non prevalente, che la stessa sia in rapporto di strumentalità diretta ed immediata con quei fini di religione e di culto, e quindi, non si limiti a perseguire il procacciamento dei mezzi economici al riguardo occorrenti, dovendo altrimenti essere classificata come “attività diversa”, soggetta all’ordinaria tassazione”. Proprio tale indagine non sarebbe stata compiuta dalla Commissione Tributaria Regionale.
Chiesa e fisco
La decisione in commento riconferma il ruolo da “protagonista” che da qualche tempo la Cassazione riveste nel rapporto tra Chiesa e fisco italiano, fondato su norme non sempre di agevole decodificazione. A conferma di questo ruolo, basti pensare all’importanza della pronuncia n° 14226- risalente solo al 2015- con la quale la stessa Suprema Corte sancì per la prima volta l’obbligo di pagamento, seppur a date condizioni , dell’ICI-poi IMU- per le scuole paritarie; anche in tale occasione venne ritenuto decisivo a tal fine l’accertamento in concreto di un requisito oggettivo, e quindi la necessità di uno svolgimento esclusivo nell’immobile- provato dallo stesso contribuente- di attività di assistenza o altre attività equiparate ma senza le modalità tipiche di un’attività commerciale per poter andare esenti da tale imposta.
Antonio Cimminiello