Cassazione, sentenza n. 39884/2017: Non si può invocare lo stato di necessità per il furto di energia elettrica.
Non occorre una frequentazione assidua delle aule di giustizia per scoprire che il furto di energia elettrica è ormai un reato molto comune.
Talvolta, gli autori del furto sono stati individuati in commercianti, altre volte in semplici vicini di casa, magari fin troppo parsimoniosi verso il proprio bilancio familiare tanto da scroccare l’energia elettrica al Ned Flanders di turno. Altre volte ancora, però, tale furto viene commesso da parte di alcuni soggetti che, a causa delle precarie condizioni di vita in cui versano, difficilmente riuscirebbero a sostenere i pesi economici di tutte le ordinarie utenze familiari (luce, acqua, gas, rifiuti ecc..). Peccato però che un conto è non pagare la fattura dell’utenza, altra cosa è rubarla ad altri poiché in quest’ultimi casi si realizza un reato bello e buono.
Ma di fronte a tali situazioni di forte disagio economico e sociale come risponde la legge? Potrebbe il furto in questione ritenersi giustificato dallo stato di precarietà o da un presunto stato di necessità?
Per rispondere a tali quesiti è bene intenderci su cosa rappresenti per il diritto penale stato di necessità. Quest’ultimo s’identifica in una causa di giustificazione prevista dall’art. 54 c.p. che esclude il reato qualora, questo, venga commesso perché costretti “dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”.
Tuttavia, con la sentenza n. 39884/2017 la cassazione ha espressamente chiarito che tale esimente non può applicarsi “a reati asseritamente provocati da uno stato di bisogno economico, qualora ad esso possa comunque ovviarsi attraverso comportamenti non criminalmente rilevanti”. In particolare, a detta della Corte, la mancanza di energia elettrica non comporta “nessun pericolo attuale di danno grave alla persona, trattandosi di bene non indispensabile alla vita […] semmai idoneo procurare agi ed opportunità, che fuoriescono dal concetto di incoercibile necessità, insito nella previsione normativa”.
Non sono valse dunque per i giudici della corte le argomentazioni sostenute dalla difesa la quale, rimarcando le condizioni precarie e faticose della propria assistita – sfrattata, priva di lavoro e con una figlia incinta – riteneva, al contrario, che una simile situazione di precarietà avrebbe dovuto portare all’assoluzione dal reato proprio in forza dello stato di necessità ex art. 54 c.p..
A dire il vero una pronuncia di questo tenore non rappresenta di certo una novità . L’esclusione dello stato di necessità è stato infatti ribadito anche in altre occasioni di paventate condizioni di precarietà economica e sociale (si pensi ai casi di emergenza abitativa) a fronte dei quali i giudici della nomofilachia non hanno disatteso la predetta l’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 54 c.p.. Insomma, ferme le condizioni della norma richiamata, finché un fatto è evitabile non può esservi stato di necessità.
Infine, tiene a precisare la Suprema Corte in una stringata riga come “l’allaccio abusivo alla rete, in qualunque modo effettuato, integra la fraudolenza sanzionata dall’art. 625, n. 2.” con poca pace dunque per tutti quei difensori che affrontando simili cause tentano sempre con argomentazioni giuridiche più o meno efficaci di escludere tale aggravante.
Si arrenderanno?
Antonio Colantoni