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“Pm d’assalto”: quando la critica diventa diffamazione

Per arrivare allo “scoop” giornalistico, oltre ad un contributo ben fatto ed interessante, è spesso d’aiuto l’utilizzo di titoli ed espressioni “ad effetto”. Ma l’imprevisto può essere dietro l’angolo, e così si può passare dall’esercizio del diritto di cronaca e critica a condotte penalmente rilevanti, soprattutto quando i contesti ed i personaggi richiamati hanno un rilievo particolare, come nel caso della magistratura.

Con la sentenza  11087/2017 la Quinta Sezione Penale della Cassazione ha fornito un ulteriore contributo interpretativo in ordine alla distinzione tra considerazioni che- utilizzate dai mass media- rimangono manifestazioni legittime dei diritti di cronaca e di critica, ed espressioni al contrario offensive dell’altrui persona, in grado di arrivare ad assumere rilevanza penale, ad esempio nella forma della diffamazione, come accaduto nella vicenda affrontata.

La vicenda

In un’edizione regionale del giornale “Il Quotidiano” risalente al 2009 compariva un articolo dedicato alla vicenda “Tempa Rossa”, cioè all’inchiesta giudiziaria -diretta dalla Procura della Repubblica di Potenza – circa la regolarità di una procedura espropriativa avente ad oggetto fondi in Basilicata ed in favore di una società petrolifera. Nel corpo dell’articolo, nel fare riferimento ad una serie di protagonisti della vicenda, venivano utilizzate espressioni molto colorite; in particolare, quanto al Pubblico Ministero titolare di tale indagine (il magistrato Henry John Woodcock), lo si definiva ” …magistrato d’assalto che con molta leggerezza e pressapochismo sta perseguendo persone innocenti», che con «…arbitrio ha stralciato il T.U. sugli espropri» ed ha esercitato «…un potere che non rientra, ma anzi confligge con la sua funzione e attribuzione».

La Corte di Appello di Catanzaro ribadiva per tale vicenda la responsabilità del direttore del giornale sopra ricordato. In altre parole, costui non avrebbe esercitato quel dovere di vigilanza sul contenuto dell’ articolo che gli compete in virtù del proprio ruolo- nonostante la presenza in esso di espressioni diffamatorie, in quanto non rispettose del limite della continenza- rendendolo così responsabile del reato di cui agli artt. 57 e 595 c.p.

Nel ricorrere per Cassazione, il direttore della testata cercava di porre l’attenzione sull’obiettivo delle frasi incriminate, finalizzate- a suo avviso- alla legittima critica dell’operato del magistrato, e non ad un attacco gratuito alla persona di quest’ultimo.

Il chiarimento della Corte: il diritto di critica e l’operato della magistratura

La Quinta Sezione Penale della Cassazione con la sentenza 11087 del 2017 mostra di non condividere l’obiezione avanzata dal ricorrente e sopra esposta. Non si nega affatto l’esercizio di un diritto comunque essenziale- nella misura in cui si pone come espressione di quella libertà di manifestazione di pensiero, tutelata tanto dalla Costituzione italiana quanto dalla CEDU- qual è il diritto di critica. Ma di tale diritto intanto può parlarsi solo ove vengano rispettati quei “limiti” per esso coniati dalla giurisprudenza di legittimità fin dagli anni ’80 del secolo scorso, e cioè interesse pubblico, correttezza , obiettività e verità del fatto narrato (pertinenza, continenza, verità).

Nell’articolo oggetto della questione mancherebbe proprio il rispetto della continenza, escluso in presenza di “… espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona in quanto tale e che, siccome gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodano in una aggressione verbale del soggetto criticato”.  I parametri si fanno più rigorosi quando ad essere coinvolti sono soggetti che rivestono particolari ruoli istituzionali: in particolare, “… l’esercizio del diritto di critica giudiziaria che si appunti sull’operato di un magistrato dell’Ufficio del Pubblico Ministero non può consistere nella gratuita attribuzione di malafede, risolvendosi, altrimenti, in una lesione della reputazione professionale e della intangibilità della sfera di onorabilità del magistrato medesimo”.

Le espressioni censurate, parlando in sostanza di strumentalizzazione della funzione giudiziaria ed assoggettamento della medesima ad interessi di natura privata, si traducono quindi in un attacco alla persona del magistrato, esulando dal diritto di critica e rendendo impossibile invocare- come pure aveva fatto il ricorrente- la scriminante dell’esercizio del diritto di cui all’art. 51 c.p.

I limiti del diritto di cronaca e la tutela dell’ordine giudiziario

Nulla di nuovo viene integrato dall’intervento della Suprema Corte quanto ai “paletti” entro i quali può ancora riscontrarsi il legittimo esercizio del diritto di critica. Piuttosto, la sentenza 11087 si segnala per un’opera di interpretazione e “selezione” che oggi si impone soprattutto alla luce dell’evoluzione del linguaggio comune: “…vi sono talune parole ed anche frasi che, pur rappresentative di concetti osceni o a carattere sessuale, sono diventate di uso comune ed hanno perso il loro carattere offensivo, prendendo il posto nel linguaggio corrente di altre aventi significato diverso” (Cassaz. Pen., Quinta Sez., 27966/2007). 

La stessa Cassazione ha nel tempo ammesso, nell’esercizio del diritto di critica, l’utilizzo di espressioni “ad effetto”, senza ricadere per ciò solo in una sfera di rilevanza penale (ad esempio quando esse ineriscono a tematiche socialmente rilevanti). E’ anche vero però che in alcune circostanze vengono in rilievo ulteriori esigenze, che non si traducono semplicemente nel rispetto degli altri diritti fondamentali, ma nella necessità di assicurare l’adeguato funzionamento delle istituzioni stesse: “…l’apparato giudiziario deve essere tutelato da attacchi distruttivi essenzialmente infondati, che minano la fiducia del pubblico nella giustizia, soprattutto in considerazione del fatto che i giudici chiamati in causa hanno un dovere di discrezione che impedisce loro di poter replicare alle accuse subite” ( Corte EDU, sent. ” Kobenter e Standard c/ Austria”, 2/11/2006).

Antonio Cimminiello

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