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Poche email non possono causare un “danno da spamming”

Capita sempre più di frequente di avere accesso alla propria casella di posta elettronica e trovarla “inondata” di email non desiderate, per lo più a scopo pubblicitario, e soprattutto inviate senza il proprio consenso. Ma in quali casi la posta “spam” può addirittura essere causa di danno da risarcire? Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza 3311 dell’8 Febbraio 2017.

La ricezione di telefonate a più riprese nella stessa giornata, o anche l’invio di numerosissime email “in serie”. La “pubblicità spazzatura” talvolta mette a dura prova la pazienza di ognuno di noi, e non sorprende il fatto che la giurisprudenza l’abbia ritenuta possibile fonte di danno risarcibile, seppur a date condizioni. Quelle condizioni che la Cassazione Civile ha avuto modo di chiarire di recente.

La questione

Un avvocato si rivolgeva al Tribunale di Roma lamentandosi della condotta tenuta nei suoi confronti dalla SIIA (“Società italiana avvocati amministrativisti”): in sostanza si sarebbe trattato dell’invio di diverse email alla casella di posta elettronica del ricorrente senza il consenso di quest’ultimo. Il Tribunale capitolino tuttavia si pronunciava al riguardo nel 2012 in senso negativo. Veniva infatti riscontrata l’assenza di prova circa l’esistenza e l’entità di un presunto “danno da spamming” (in questo caso un nocumento proveniente da trattamento dei dati personal senza il consenso dell’interessato), visto che la società convenuta  aveva provveduto all’invio di appena dieci email nell’arco di tre anni.

Il ricorrente adiva la Suprema Corte, evidenziando la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 c.c., 15 e 152 n. 2 d.lgs. n. 196 del 2003 (cd. “Codice della Privacy) e 91 c.p.c.: il Tribunale di Roma, invece di esaminare la domanda risarcitoria ai sensi dell’art. 2050 c.c. -unicamente richiamato dall’art. 15 Cod. Privacy- lo avrebbe fatto sotto il profilo della diversa responsabilità civile di diritto comune ex art. 2043 c.c.

La risposta della Suprema Corte: la “gravità” e “serietà” del danno da trattamento dei dati personali

Con la sentenza 3311/2017 la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione rigetta il ricorso sopra descritto. Nel confermare la bontà della valutazione già compiuta dal giudice di prime cure, la Corte ricorda la centralità che ormai assume un principio dettato proprio in tema di danno da trattamento dei dati personali: “…il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 15 del codice della privacy– si legge nella sentenza 3311- pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall’art. 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della “gravità della lesione” e della “serietà del danno” (quale perdita di natura personale effettivamente patita dall’interessato), in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., di cui il principio di tolleranza della lesione minima è intrinseco precipitato”.

Non basta pertanto la violazione “formale” di talune norme per configurare un danno risarcibile. In particolare, la violazione delle regole fissate dall’art. 11 Cod. Privacy- che stabilisce proprio le modalità di trattamento dei dati personali-  potrà cagionare un danno meritevole di ristoro nella misura in cui “…ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva”.

Tutela della privacy: un problema internazionale

La sentenza 3311/2017 non elabora ex novo un principio finalizzato ad orientare le decisioni in ordine all’an del risarcimento del danno da violazione della privacy, ma si limita a richiamare una regola coniata per la prima volta dalla stessa giurisprudenza di legittimità con la pronuncia 16133 del 2014. E’ in quella occasione infatti che per la prima volta vennero fissati i limiti della “gravità” e “serietà” del danno risarcibile in tali circostanze, i quali si traducono sinteticamente nel superamento- da riscontrare in concreto: deve quindi emergere una perdita personale patita in maniera effettiva- di una soglia minima di offensività, da stabilirsi a sua volta prendendo in considerazione la coscienza sociale di una data fase storica.

Questa vera e propria “soglia di sbarramento” per avere accesso al risarcimento del danno rappresenta un parametro per certi aspetti  mutuato da esperienze sovranazionali: basti pensare al funzionamento stesso della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, dipendente da un iniziale controllo della gravità dell’offesa lamentata. Ma, proprio in tema di tutela della riservatezza, a livello internazionale questo parametro non sempre è operante: ad esempio con la nota sentenza sul caso “Google” (131/2014), la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nel riconoscere il cd. “diritto all’oblio” – e cioè il diritto alla cancellazione ed opposizione al trattamento dei propri dati personali- ha imposto ai motori di ricerca il rispetto di obblighi normalmente in capo ai responsabili del trattamento di dati personali, ma senza postulare altresì la verificazione di un danno effettivo.

Antonio Cimminiello

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