Una pronuncia del Tribunale di Campobasso si sofferma sul tema- sempre attuale- della reale configurabilità del reato di diffamazione a mezzo Internet, ed in particolare attraverso le cd. “interazioni” sui social network come Facebook.
La portata dirompente che ha avuto l’avvento di Facebook nella quotidianità ha inevitabilmente inciso sull’ampiezza dei diritti esercitabili anche tramite tale social network, in particolare la manifestazione del proprio pensiero. Di questo argomento si è occupato il Tribunale di Campobasso con la sentenza n° 396/2017.
La vicenda
Tre persone vengono citate in giudizio innanzi al tribunale molisano in quanto imputate del reato di diffamazione aggravata. Una di esse aveva provveduto infatti alla pubblicazione, sulla bacheca del proprio profilo Facebook, di un post eccessivamente critico nei confronti di un giudice, “reo” di aver comminato e non revocato nei suoi confronti un’ammenda di 250 Euro per non essersi presentato in giudizio pur essendo stato citato come testimone (lamentando la prolungata assenza- in realtà giustificata- dello stesso magistrato in due precedenti udienze in occasione delle quali invece l’imputato si era presentato).
Gli altri due imputati, condividendo ed approvando l’opinione così espressa virtualmente, nel commentare il post si lasciavano andare all’utilizzo anch’essi di espressioni offensive nei confronti dello stesso giudice, accompagnate da attacchi all’intera categoria della magistratura.
Nel ritenere provata la penale responsabilità dei tre imputati, la sentenza 396/2017 del Tribunale di Campobasso offre particolari spunti di interesse con riguardo ad alcuni aspetti strutturali del reato punito dall’art. 595 c.p., e specificamente con riferimento alla condotta oggettiva. Accertata la riferibilità delle denigrazioni ad una persona precisa nonché la genuinità della loro provenienza (cosa quest’ultima non agevole, dato che un profilo Facebook non sempre corrisponde perfettamente ad una persona fisica), si è posto nel caso di specie il problema di qualificare la condotta tenuta da due dei tre imputati, cioè da coloro che sempre offensivamente hanno commentato l’altrui post.
La diffamazione e la “diffusività” dell’offesa
“A nulla vale per escludere la rilevanza penale della loro condotta – si legge nella sentenza – la considerazione che si siano solamente “limitati” ad aggiungere al post da altri pubblicato un mero commento successivo. Invero, va osservato che “in tema di diffamazione, la reputazione di una persona che per taluni aspetti sia già stata compromessa può divenire oggetto di ulteriori illecite lesioni in quanto elementi diffamatori aggiunti possono comportare una maggior diminuzione della reputazione della nella considerazione dei consociati”. In altre parole, anche il semplice commento è penalmente rilevante, nella misura in cui si “amplifica” l’offesa nei confronti della vittima: aspetto quest’ultimo senza dubbio innegabile nel caso del commento ad un post, destinato ad una significativa esposizione proprio in virtù della sua “collocazione”.
Della diffusività dell’offesa perpetrata a mezzo Facebook tramite pubblicazione di post ed interazioni con esso tra l’altro sembra già esserne consapevole da tempo la Corte di Cassazione. Infatti “…la condotta di postare un commento sulla bacheca Facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo realizzato, a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica, di guisa che, se offensivo è tale commento, la relativa condotta rientra nella tipizzazione codicistica descritta dall’art. 595 c.p.p., comma 5” (così Cass. 1.03.2016 n. 8328; Cass. 2/01/2017 n. 50).
Oltre la manifestazione del pensiero
Nulla di nuovo con questa pronuncia, che ribadisce, come visto, un orientamento affermatosi già da qualche anno in seno alla giurisprudenza di legittimità. Essa però ne rappresenta un’importante applicazione concreta con riferimento ad una vicenda davvero comune e diffusa- commentare senza limiti i post di altri- per ribadire una sorta di argine ai “leoni da tastiera”, e cioè a fronte di quei comportamenti che non costituiscono manifestazione del pensiero e che si potrebbero ritenere coperti da “immunità” per il semplice fatto di non essere autori di un vero e proprio post.
Antonio Cimminiello