In un recente articolo scritto all’ indomani dell’apparizione all’Università di Harvard della celebre fashion blogger Chiara Ferragni, Beppe Severgnini – tracciando un parallelismo tra il giornalista ed il blogger – ha sottolineato come la gente diffidi “di chi dovrebbe garantire un giudizio imparziale, fidandosi invece di chi offre apprezzamenti a pagamento”.
La figura del blogger è certamente una delle più in voga del momento, non soltanto per la capacità di alcuni di saper vendere il loro pensiero o il loro prodotto, quanto più per la nostra attitudine a seguire in forma massiva i consigli provenienti dal web.
Anche per questo, l’evoluzione ha portato ad identificare la categoria dei blogger che sui loro canali social offrono veri e propri consigli per gli acquisti, in quella dei c.d. web influencer.
Ma quanto è legale questo tipo di pubblicità?
Su questa categoria che trae la sua fortuna anche dall’assenza di una disciplina legislativa, si è interrogata l’Autorità garante della concorrenza sul mercato (Antitrust) che con una nota dello scorso 24 luglio, ha voluto tracciare i limiti della liceità della promozione di brand e prodotti sui propri canali social, cercando anche di dare una definizione di questo fenomeno.
Come si legge nella nota “l’influencer marketing consiste nella diffusione su blog, vlog e social network di foto, video e commenti da parte di bloggers e influencers (ovvero di personaggi di riferimento del mondo online, con un numero elevato di followers), che mostrano sostegno o approvazione per determinati brand, generando un effetto pubblicitario, ma senza palesare in modo chiaro e inequivocabile ai consumatori la finalità pubblicitaria della comunicazione.
Come chiarito dall’Antitrust, spesso non vi è alcuna specificazione sul carattere pubblicitario dei post. Talvolta il brand sponsorizzato viene riportato negli hashtag o nei tag mentre altre volte, con immagini che volutamente rappresentano un ambiente domestico e vengono proposte con tecniche fotografiche non professionali, non viene in alcun modo specificato ai propri followers che il post è in realtà un vero e proprio annuncio pubblicitario.
Partendo da questi casi, l’autorità ha analizzato la possibilità, di queste condotte, di ledere il divieto di pubblicità occulta riportato nel decreto n.206 del 2005, ovvero il c.d. Codice del Consumo e che potrebbero sfociare nell’ulteriore ed insidioso fenomeno del marketing occulto.
Per questo motivo, ha inviato delle lettere di moral suasion ad alcuni tra i maggiori influencer oggi in circolazione nonché alle società titolari dei marchi visualizzati, dettando loro dei criteri generali di comportamento.
Come può leggersi nella nota “la pubblicità deve essere sempre riconoscibile come tale”, e pertanto viene chiesto “di rendere chiaramente riconoscibile la finalità promozionale, ove sussistente, in relazione a tutti i contenuti diffusi mediante social media, attraverso l’inserimento di avvertenze, quali, a titolo esemplificativo e alternativo, #pubblicità , #sponsorizzato, #advertising, #inserzioneapagamento, o, nel caso di fornitura del bene ancorché a titolo gratuito, #prodottofornitoda; diciture alle quali far sempre seguire il nome del marchio.”
L’avvertita necessità di conformare tali pratiche alla disciplina del codice del consumo, sottende un problema sociologico più che legislativo dato da una cieca e, spesso, inconsapevole acquiescenza del lettore (o del follower) ai contenuti. L’introduzione delle specifiche suesposte, rappresenta, quindi, una forma di tutela per il consumatore (e più in generale per l’utente medio) che viene reso più consapevole, quindi — presumibilmente — più responsabile o, magari, meno “influenzabile”.
Francesco Donnici