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Il reato di falso assorbe la diversa fattispecie di abuso d’ufficio

Con la sentenza n. 13849/2017 la Cassazione torna ad approfondire il tema che riguarda il rapporto tra i reati di falso ed abuso d’ufficio. Si tratta di fattispecie incriminatrici di forte impatto sociale, oltre che idonee a ledere beni giuridici di rilievo. Eppure, ben può capitare che un medesimo fatto concreto assuma in apparenza e contemporaneamente le caratteristiche dei reati di falso ed abuso d’ufficio. Cosa succede in tal caso? La Cassazione cerca di dare nuovamente una risposta a tale domanda, con la sentenza 13849 del 2017

Il caso

Un funzionario istruttore direttivo della Camera di Commercio di Siracusa, addetto ai procedimenti relativi alla cancellazione per riabilitazione dai protesti levati in conseguenza del mancato pagamento di titoli di credito, si era reso responsabile di una serie di reati. In particolare, oltre ad appropriarsi del denaro versato dai privati alla Camera di Commercio stessa (a titolo di diritti per la cancellazione o riabilitazione dai protesti), finiva altresì con l’agevolare indebitamente alcuni debitori, sia attestando falsamente l’avvenuto pagamento dei diritti di segreteria da parte loro, sia annotando nel sistema informatico della Camera di Commercio cancellazioni per avvenuta riabilitazione, indicando tuttavia determinazioni dirigenziali relative ad altri individui. Per tali ragioni il funzionario veniva condannato ad esito di rito abbreviato innanzi al GIP del Tribunale siracusano.

Nel 2016 la Corte d’Appello di Catania decideva di riformare in parte la sentenza di condanna di cui sopra. Nello specifico, si confermava l’addebito di responsabilità penale per i reati di falso in documenti informatici pubblici aventi rilevanza probatoria, truffa aggravata e peculato, ma l’imputato veniva assolto dal reato di abuso di ufficio per insussistenza del fatto.

In conseguenza di ciò il Procuratore Generale presentava ricorso per Cassazione, lamentando la violazione di legge, consistente in sostanza nell’aver ritenuto , nel caso di specie, il reato di cui all’art. 323 c.p. assorbito dalla diversa ipotesi del falso ex art. 476 c.p., con riguardo a condotte sì perpetrate nel medesimo contesto temporale (tra il Gennaio e l’Ottobre 2009), ma integranti delitti del tutto diversi quanto a struttura- sarebbero innegabili in particolare il vantaggio ingiusto al privato ed un danno all’ente pubblico Camera di Commercio, cagionati dall’imputato- nonchè a bene giuridico attinto.

Abuso d’ufficio e falso: quale rapporto?

La Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione mostra di non condividere la valutazione del ricorrente. Nella sentenza n° 13849/2017 emerge però la consapevolezza di marciare su un “terreno minato”.

Negli anni infatti la giurisprudenza si è rivelata alquanto divisa in ordine alla risoluzione del problema dell’esatto rapporto giuridico tra i reati di falso ed abuso d’ufficio, in altre parole in ordine alla necessità di qualificare il medesimo come concorso reale o apparente delle relative norme.

A fronte di un orientamento volto a sostenere l’assorbimento dell’abuso d’ufficio da parte del reato di falso “…quando la condotta del pubblico ufficiale si esaurisce in un fatto qualificabile come falso in atto pubblico”, se ne poneva un altro inteso ad escludere una tale relazione, insistendo a tal proposito sulla diversità dei beni giuridici tutelati (l’imparzialità e il buon andamento dell’amministrazione nel caso dell’abuso d’ufficio, la genuinità degli atti pubblici in tema di falso). E non è mancata una tesi intermedia, secondo cui “…  deve riconoscersi il concorso materiale dei due delitti quando ne sono distinte le condotte , come certamente accade, ad esempio, nel caso in cui il falso sia destinato ad occultare l’abuso”.

La Cassazione aderisce all’orientamento prevalente

In tale occasione la Suprema Corte preferisce aderire al primo degli orientamenti sopra esposti, che tra l’altro è anche quello maggioritario e sostenuto pure dalla dottrina. L’argomento principale è senza dubbio il dato letterale di cui all’art. 323 c.p., e soprattutto la presenza della clausola di riserva “Salvo che il fatto non costituisca più grave reato”.

“La clausola di riserva – si legge nella sentenza in commento- non può essere intesa come applicabile solo nei rapporti tra reati aventi ad oggetto la tutela del medesimo bene giuridico, poiché altrimenti si attribuirebbe alla stessa il significato di un inutile doppione del principio di specialità. Di conseguenza, a fronte di un fatto unico, detta clausola consente, anzi impone, di applicare esclusivamente il trattamento sanzionatorio previsto per la fattispecie più grave, anche se la stessa ha ad oggetto la tutela di un bene giuridico diverso da quello presidiato dalla disposizione assistita da pena meno severa”.

Ma quale peso allora può assumere la diversità di struttura giuridica dei reati di falso ed abuso d’ufficio? La Cassazione evidenzia come l’unica differenza riscontrabile – il vantaggio ingiusto al privato ed un danno all’ente pubblico Camera di Commercio, derivante dall’abuso d’ufficio e non al falso, il quale è reato di mera condotta- debba essere interpretata in termini di “evento giuridico”, tale cioè da non porre in discussione quella “identità del fatto” che legittima la ricorrenza del concorso apparente e quindi l’applicabilità dei relativi criteri risolutivi (dalla specialità ex art. 15 c.p. fino all’assorbimento).

Nel caso di specie l’imputato si è limitato ad “…attestare falsamente la positiva conclusione delle pratiche di cancellazione dei protesti. In altri termini, la condotta addebitata a titolo di abuso di ufficio si esaurisce, nelle sue componenti storico-naturalistiche, nella commissione di un fatto qualificabile come falso in atto pubblico”.

“Identità del fatto” e clausole di riserva

Uno dei profili di interesse della sentenza 13849/2017 è il richiamo per così dire “indiretto” alla giurisprudenza sovranazionale. La nozione di “identità del fatto” richiamata nella pronuncia – e da intendere come “corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona”– è proprio quella condivisa dalla Corte EDU in tema di ne bis in idem processuale ( in tal senso si può ricordare la celebre sentenza “Grande Stevens c. Italia” del 2014).

La Suprema Corte comunque non omette di indicare le ragioni di tale richiamo: “La nozione di identità del fatto elaborata in tema di applicazione del divieto di bis in idem processuale sembra esportabile ai fini della individuazione dell’area di operatività delle clausole di riserva, per affinità di funzione: la finalità delle clausole di riserva, infatti, è quella di evitare comunque una doppia incriminazione, sia pure se per esigenze di tipo sostanziale, ma comunque in una prospettiva di contenimento dell’ordinamento penalistico”.

Antonio Cimminiello

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