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Resistenza a più pubblici ufficiali: il reato è unico

La Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 4123/2017 evidenzia l’impossibilità di sostenere  la sussistenza di una pluralità di reati ricavandola dalla pluralità delle persone offese . La questione si mostra solo in apparenza teorica, alla luce delle importanti implicazioni che ne derivano in tema di trattamento sanzionatorio.

La Cassazione penale ha affrontato di recente un particolare profilo legato alla più ampia tematica dell’accertamento del reato, offrendo una particolare “direttiva” da seguire quando  si tratta di stabilire se ricorra l’unità o la pluralità di fattispecie incriminatrici.

Il caso

Il difensore di M. M. proponeva ricorso per Cassazione a seguito di  sentenza, pronunciata a carico del suo assistito  dalla Corte d’Appello di Trieste nel 2015, con la quale si confermava la precedente decisione del Tribunale locale. Precisamente, in primo grado l’imputato- reo di aver opposto una violenta resistenza agli agenti della Polizia di Stato impegnati nella sua identificazione, accompagnata da frasi offensive in pubblico e persino da uno sputo-era stato condannato ad una pena di otto mesi di reclusione per i reati di resistenza ed oltraggio a pubblico ufficiale, nonchè di rifiuto d’indicazioni sulla propria identità personale.

Nel ricorso il difensore poneva l’accento sul fatto che sia in primo che in secondo grado fosse stata riconosciuta una violazione in forma continuata del reato di resistenza, fondando tale statuizione tuttavia sulla sola circostanza della “pluralità” degli agenti coinvolti.  Sarebbe così intervenuta una erronea applicazione della legge penale.

La Corte interviene: “pluralità” di persone offese non equivale a “pluralità” di reati

Nell’accogliere il motivo di doglianza sopra ricordato, con la sentenza 4123/2017 la Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione provvede innanzitutto ad una ricognizione degli orientamenti giurisprudenziali che nel tempo si sono susseguiti sul punto.

Si ricorda come proprio la giurisprudenza di legittimità , per lungo tempo ed anche di recente, avesse sostenuto, in tema di resistenza a pubblico ufficiale, la sussistenza di più distinti reati a fronte di offesa ingenerata in tal modo a più pubblici ufficiali nel medesimo contesto. Ma emerge la fallacia di una simile tesi, nella misura in cui permette- si legge nella sentenza in commento- di perdere di vista “…il bene indiscutibilmente oggetto della salvaguardia apprestata dall’art. 337 cod. pen., che è rappresentato dal regolare svolgimento dell’attività della P.A.”. L’accertamento in concreto pertanto dovrà avere di mira gli elementi costitutivi del reato, e quindi in primo luogo condotta ed elemento psicologico.

Dalla vicenda sottoposta all’attenzione della Suprema Corte si desumeva in primis il carattere contestuale,unitario ed “indistinto” della condotta tenuta dall’imputato, il quale in sintesi si era divincolato e aveva fortemente spintonato gli agenti intervenuti al fine di opporsi alla propria identificazione. Nè tra l’altro poteva negarsi l’esistenza di un atteggiamento psicologico ugualmente unitario, stante “…l’assenza di elementi accertati in atti, alla stregua dei quali poter fondatamente sostenere la “esistenza di uno specifico atteggiamento psicologico diretto a realizzare l’evento tipico previsto dalla norma incriminatrice” nei confronti di ciascun operante”, che ancora avrebbe potuto radicare almeno un concorso formale di reati. Pertanto, è da escludersi la sussistenza di reato continuato ed il relativo aumento di pena.

La rilevanza penale del concetto di “unicità

La sentenza 4123/2017 esclude per il caso di specie l’operatività di un istituto- il reato continuato, disciplinato dall’art. 81 c.p.- normalmente espressivo di un favor rei legislativo in un ambito centrale quale quello della determinazione della pena in concreto, ovviando tradizionalmente agli effetti negativi che deriverebbero dal semplice “cumulo materiale”. In questo caso infatti la sua applicazione ha comportato al contrario un ingiustificato aumento di pena, e tra l’altro in assenza del suo presupposto più importante, rappresentato proprio dalla pluralità di azioni od omissioni esecutive del medesimo disegno criminoso.

Tale pronuncia si inserisce comunque nel più ampio filone teso a valorizzare l’analisi della fattispecie oggettiva del reato in concreto, e quindi considerando innanzitutto la sua dimensione “empirica”: a titolo esemplificativo, può ricordarsi a tal proposito la sentenza n° 200/2016 con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. nella parte in cui subordina l’operatività del divieto di “ne bis in idem”- il divieto di essere perseguito e condannato due volte per lo stesso fatto di reato- alla ricorrenza di uno stesso fatto-reato considerato come tale secondo la sua qualificazione giuridica- e quindi escludendo tale operatività in caso di concorso formale- e non fattuale, così violando l’art. 4 protoc. 7 della CEDU.

Antonio Cimminiello

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