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Quando si configura l’esimente della reazione ad atti arbitrari dei pubblici ufficiali?

Con una recente pronuncia, la Corte di Cassazione ha confermato quando i comportamenti di una persona sono giustificabili come reazioni ad atti arbitrari dei pubblici ufficiali e quando, al contrario, tali comportamenti integrano il reato di resistenza a un pubblico ufficiale previsto all’art. 337 del codice penale.

Resistenza a pubblici ufficiali: il caso

All’uscita da un locale notturno intervenivano i Carabinieri dopo la segnalazione dei disturbi e molestie provocati da una giovane donna in lacrime e in stato di alterazione psicofisica da ubriachezza.

Le forze dell’ordine chiamavano il 118 per prestare alla giovane le cure necessarie, ma poiché la stessa nel frattempo cercava di rientrare nel locale per iniziare una lite, decidevano di trasportarla con l’auto di pattuglia direttamente all’ospedale e non di recarsi al comando per l’identificazione formale.

Durante il tragitto prima, ed in ospedale poi, la donna insultava pesantemente gli agenti, con urla, calci, sputi e schiaffi.

Resistenza a pubblici ufficiali e reazioni giustificate: gli articoli di riferimento

Per inquadrare a livello normativo la questione, le disposizioni di riferimento sono due: gli artt. 377 e 393 bis del codice penale.

La prima disposizione sancisce che “chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni”.

L’art. 393 bis del codice penale, invece, è una causa di non punibilità che prevede che alcuni reati – fra i quali appunto la resistenza a pubblici ufficiali – non sussistano qualora “il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia dato causa al fatto preveduto negli stessi articoli, eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni”.

Resistenza a pubblici ufficiali: l’iter giudiziario e la pronuncia della Cassazione

Il tribunale di Vigevano in primo grado, con conferma nel giudizio di secondo grado presso la Corte d’appello di Milano, condannava la donna alla pena di quattro mesi di reclusione in relazione al reato di cui all’art. 337 c.p. (con le modalità violente enunciate nei capi d’accusa).

Con la sentenza della Corte di Cassazione, sezione VI penale, n. 52558 del 30 novembre 2016, i giudici hanno confermato le statuizioni del primo e del secondo grado di giudizio.

Secondo la ricostruzione del legale della condannata, prospettata in cassazione avvalendosi di alcuni passaggi della deposizione di uno degli agenti, la scelta dei carabinieri di provvedere personalmente al trasporto presso l’ospedale avrebbe costituito una illegittima limitazione della libertà personale della donna, con conseguente applicazione dell’esimente prevista dall’art. 393 bis c.p.

La Cassazione non condivide questa ricostruzione, sottolineando anche alcuni precedenti in materia, fra cui la recente sentenza della VI sezione penale n. 16101 del 18 marzo 2016, secondo la quale: “presupposto necessario per l’applicazione della causa di giustificazione prevista dall’art. 4 del D.Lgs. 14 settembre 1944, n. 288 [di cui l’art. 393 bis c.p. è la reintroduzione] è un’attività ingiustamente persecutoria del pubblico ufficiale, il cui comportamento fuoriesca del tutto dalle ordinarie modalità di esplicazione dell’azione di controllo e prevenzione demandatagli nei confronti del privato destinatario”.

La condotta dei militari non può configurarsi come tale nel caso di specie, tenendo conto anche che i giudici hanno ritenuto come una semplice riproduzione di alcuni passaggi della testimonianza acquisita in corso di causa non consenta di valutare la fondatezza del vizio dedotto con il ricorso, considerando quindi generico il motivo prospettato dalla parte ricorrente.

La Corte ha pertanto dichiarato inammissibile il ricorso e condannato l’imputata alla rifusione delle spese processuali del giudizio e al versamento di 1.500 euro alla cassa delle ammende.

Chiara Pezza

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