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Si fa consegnare somme per comprare il favore dei funzionari, condannato usciere comunale

Cassazione, sentenza n. 11534/2017: Risponde di millantato credito il pubblico impiegato che millantando rapporti con taluni funzionari riceve una somma di denaro per comprarne il favore“.

Come sempre, nel diritto penale, uno dei più grandi scogli su cui devono scontrarsi giudice, accusa e difesa è quello della corretta qualificazione del fatto costituente reato.

A causa infatti della moltitudine di fattispecie astratte regolate dal codice Rocco e della somiglianza in termini strutturali delle norme, accade non di rado che a fronte dell’imputazione e della successiva condanna del soggetto agente per una determinata fattispecie di reato, a seguito dell’impugnazione, l’organo di secondo grado ritenga che il fatto addebitato sia in realtà diverso da quello originariamente attribuito.

La questione, poi, si complica ancora di più se accanto al variegato panorama di reati prospettabili si aggiunge l’ulteriore difficoltà di comprendere se il soggetto attivo sia un pubblico ufficiale ovvero un incaricato di pubblico servizio ovvero ancora un semplice impiegato con mansioni meramente esecutive.

Prendiamo ad esempio il caso in esame.

IL FATTO

Un pubblico impiegato di un Comune del nord Italia riceveva da un privato somme di denaro, asseritamente destinate a favorire, “addolcendo alcuni funzionari”, l’esito di una pratica di assunzione presso una società a partecipazione pubblica. Il tutto ben condito dalla messa in scena di una telefonata apparentemente proveniente da un funzionario.

Ecco, in un simile caso, di fronte a quale reato ci troviamo?
La risposta, naturalmente, deve essere data prendendo in esame tutti i particolari della vicenda: il pubblico impiegato può annoverarsi tra i pubblici ufficiali? Esistono realmente i rapporti tra quest’ultimo e i funzionari da “addolcire”? Il predetto impiegato ha realizzato una condotta induttiva ai fini dell’ottenimento delle somme di denaro? Ecc…

Quanto appena detto, non deve essere considerata mera disquisizione, ma vuole rappresentare la difficoltà cui di solito le autorità giudiziarie s’imbattono nella esatta determinazione del reato.

In particolare, nel caso di specie il pubblico impiegato, dopo essere stato condannato dal giudice di primo grado ai sensi dell’art. 319- quater c.p. (induzione indebita), a seguito di impugnazione, veniva successivamente condannato ai sensi dell’art. 346 c.p. (millantato credito) dalla Corte di Appello la quale, accogliendo sul punto le doglianze dell’imputato, aveva escluso la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio ritenendo, pertanto, che si non trattasse di induzione, ma di millanteria.

LE NORME

Art. 319- quater c.p. “Induzione indebita a dare o promettere utilità”

Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da sei anni a dieci anni e sei mesi.
Nei casi previsti dal primo comma, chi dà o promette denaro o altra utilità è punito con la reclusione fino a tre anni.

Art. 346 c.p. “Millantato Credito”

Chiunque, millantando credito presso un pubblico ufficiale, o presso un pubblico impiegato che presti un pubblico servizio, riceve o fa dare o fa promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità , come prezzo della propria mediazione verso il pubblico ufficiale o impiegato, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da trecentonove euro a duemilasessantacinque euro.
La pena è della reclusione da due a sei anni e della multa da cinquecentosedici euro a tremilanovantotto euro, se il colpevole riceve o fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, col pretesto di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o impiegato, o di doverlo remunerare.

LE DOGLIANZE DELLA DIFESA

Con ricorso per Cassazione si doleva il pubblico impiegato, che per la precisione rivestiva la figura di usciere, ritenendo che la diversa qualificazione giuridica del reato operata dalla Corte di Appello avesse creato un vulnus alla sua difesa avendogli impedito di fatto di apprestare in tempo le opportune strategie difensive originariamente tese a scardinare il reato di induzione indebita contestatogli in primo grado, e per il quale aveva altresì tentato la riqualificazione giuridica del fatto sotto la veste della delitto di truffa.

LA DECISIONE DELLA SUPREMA CORTE

Con sentenza n. 11534 del 9 marzo 2017 si pronunciava sul caso in esame la VI Sezione della Corte di Cassazione ritenendo infondato il predetto ricorso.

Ebbene, la Suprema Corte richiamando talune pronunce della medesima, in ordine alla possibilità del giudice di riqualificare giuridicamente il fatto addebitato all’imputato, ha sostenuto che rientra tra le facoltà del Giudice, secondo quanto previsto dall’art. 521 c.p.p. quella di dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella contenuta nell’imputazione”. Principio, questo, che trova riscontro anche nell’art. 597 co. 3 c.p.p  alla cui stregua “può darsi al fatto una diversa qualificazione giuridica, anche nel caso di appello del solo imputato, fermo il divieto di reformatio in peius del trattamento sanzionatorio”.

Ciò che assume valore pregnante per la Corte è che la riqualificazione non trasmodi in una “immutazione del fatto contestato, così da tradursi in un difetto di correlazione tra contestazione e sentenza” ritendendosi pertanto “legittima allorché la stessa sia nota o comunque prevedibile per l’imputato e non sia tale da determinare una lesione dei diritti di difesa derivante dai profili di novità che dal mutamento possono scaturire”.

Ciò detto, la Suprema Corte ritenendo che:

  • sul piano strutturale l’imputazione originaria conteneva gli elementi sui quali si è fondata la successiva riqualificazione;
  • il ricorrente fosse stato posto in grado di difendersi atteso che, di fronte alla possibile/prevedibile riqualificazione del reato, aveva vanamente prospettato una tesi difensiva incentrata sul reato di truffa;
  • fosse in concreto prevedibile per l’imputato che il fatto, emendato dal riferimento a quella peculiare qualifica soggettiva, fosse sussumibile nella diversa forma di reato di millantato credito attese le caratteristiche di subdola e artificiosa suggestione nei confronti del privato che di per sé apriva la strada alla modifica dell’imputazione;
  • il medesimo non aveva formulato doglianze in merito alla lesione del diritto di difendersi attraverso la concreta proposizione di mirati mezzi di prova;

rigettava il ricorso presentato dall’imputato condannandolo alle spese processuali.

Antonio Colantoni

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