Società di comodo e test di operatività: la legge n. 724 del 1994
In ambito societario e tributario, fino all’introduzione della legge del 1994, i contribuenti ricorrevano frequentemente ad alcuni escamotage, legalmente ancora validi, al fine di ottenere vantaggi fiscali d’imposta. In particolare, era invalsa la pratica per la quale si costituivano società di persone o società per azioni che divenivano società di comodo, utilizzate per ottenere risparmi fiscali senza far risultare l’effettivo contribuente che, di fatto, si serviva dello schermo societario per i propri interessi patrimoniali personali.
Con l’introduzione della legge 724/1994, “Misure di razionalizzazione della finanza pubblica”, si è introdotta una normativa specifica volta ad identificare, sulla base di precise disposizioni, le società di comodo (o società non operative) che fanno ricorso a vantaggi fiscali di natura elusiva (artt. 30 e seguenti), delineando un sistema apposito per individuarle.
Determinante, al riguardo, risulta il cosiddetto “test di operatività”.
Tale test consiste in una verifica da effettuarsi su ricavi, incrementi delle rimanenze e proventi complessivi della società (risultati – ove prescritto – dal conto economico) la cui somma non può essere inferiore a determinati importi, derivati dall’applicazione di una serie di percentuali, coefficienti e criteri fissati dalla legge.
Se il calcolo finale risulta inferiore, il test non è superato e si considera la società di comodo, con una serie di conseguenze e sanzioni.
Spetterà poi al contribuente, in tal caso, fornire prova contraria, dimostrando che il mancato superamento del test di operatività è dovuto a situazioni che la Cassazione (sentenza sez. V, n. 21358 del 21/10/2015) ha definito “oggettive e straordinarie, specifiche ed indipendenti dalla sua volontà, che abbiano impedito il raggiungimento della soglia di operatività e di reddito minimo presunto”.
Società di comodo e test di operatività: la questione
Dato che la normativa citata svolge una evidente funzione antielusiva, al fine di smascherare quelle società che – a prescindere dall’oggetto sociale dichiarato – sono state costituite non per l’esercizio di attività commerciale ma solo per perseguire l’interesse dei singoli soci, è di tutta evidenza come il test di operatività sia rilevante.
Sul controllo da effettuarsi col test di operatività si è recentemente espressa anche la Corte di Cassazione, sezione I, con l’ordinanza n. 8218 del 2017, in un caso in cui i ricorrenti avevano impugnato la sentenza della Commissione Tributaria di II grado di Trento (sentenza 44/01/2015 del 27/04/2015) che accoglieva l’appello dell’Agenzia delle Entrate nei confronti di una società in accomandita semplice.
La suddetta società in accomandita semplice, in Commissione tributaria di primo grado di Trento, si era vista accogliere i ricorsi contro gli avvisi di accertamento IRES ed IRPEF 2006.
Nelle sue motivazioni, la Commissione tributaria di secondo grado di Trento sottolineava la mancata controprova, da parte della società, della presunzione di “non operatività” ex legge 724/1994.
Società di comodo e test di operatività: l’ordinanza della Cassazione
La corte non ritiene accoglibile il ricorso, rigettandolo con condanna alle spese processuali.
Secondo le tesi sostenute dalla Corte di Cassazione, infatti, l’operato della corte d’appello è stato corretto ed ha fatto uso dei principi precedentemente già enunciati dai giudici di legittimità in una precedente pronuncia (Sez. V, Sentenza n. 21358 del 21/10/2015). In particolare, si legge nella sentenza, non potendosi sindacare nel merito le risultanze di fatto analizzate in appello, i giudici di secondo grado avevano verificato come nell’anno di imposta per cui era causa la società dei ricorrenti fosse stata “gestita in perdita senza obiettivi di profitto immediati e concreti, perché l’unico bene di proprietà […] è stato ceduto in locazione a terzi, ad un canone che correttamente è stato ritenuto incongruo rispetto alle condizioni di mercato e non remunerativo rispetto alle rilevanti spese di risanamento e ristrutturazione sostenute nel corso degli anni 2004 e 2005”.
Tale risultanza è stata ritenuta sufficiente a “non superare il cosidetto “test di operatività”, senza bisogno di indagare e rivelare l’esistenza di intenzioni fraudolente od elusive”, tenuto conto inoltre che la società contribuente “non aveva dato la prova contraria che le incombeva”, soprattutto a fronte della “plateale antieconomicità delle spese di ristrutturazione” del bene dato in locazione a terzi.
Chiara Pezza