È un caldo pomeriggio di giugno, ci troviamo in una piccola cittadina in provincia di Agrigento. Per strada c’è poca gente, è domenica, e la maggior parte delle persone si trova nelle vicine zone balneari del paese.
Ad attenderci fuori il portone di casa sua c’è Marianna.
Marianna è una giovane pedagogista che da anni si occupa della formazione scolastica dei bambini del paese, ma il suo volto, ancora scavato dalle lacrime e quella maglietta nera indossata ci raccontano immediatamente di altro.
Ci raccontano di un marito, di un combattente che non c’è più. Il suo nome era Ezio, un militare dell’Esercito Italiano scomparso lo scorso ventisette aprile a causa di un tumore.
Questa non è la storia della sua vita, con rammarico infatti oggi dobbiamo raccontare la storia della sua morte. Storia che inizia nel 1998, quando all’età di vent’anni Ezio si arruola nell’Esercito Italiano come fuciliere. Un anno dopo partirà per la sua prima missione, destinazione Kosowo. È una se non la prima, delle ormai famose “missioni di pace”, che continueranno per i successivi dieci anni e che vedranno impegnato Ezio anche in Macedonia, Albania, Iraq ed Afghanistan. I primi passi di una virtuosa carriera militare sono anche i primi passi di una subdola e silenziosa malattia mortale, ma Ezio ancora non può saperlo.
Marianna ci accoglie con affetto, cercando di rompere l’imbarazzo, dopo un timido fugace sorriso dice: “Quando si perde una persona cara a noi o ai nostri affetti, si partecipa al dolore della famiglia cercando di imprimere nella memoria tutti i bei momenti, tutti i ricordi felici, per lenire il dolore e forse anche la rabbia. Ma io voglio parlare della morte di Ezio, perché in nome di quel Popolo, dello Stato che Lui ha servito, ha difeso, Ezio merita giustizia e verità. Ezio aveva fegato, era consapevole di quanto fosse rischioso partecipare ad una missione, con la certezza di trovarsi in contesti difficili ed alquanto pericolosi – continua Marianna – non fu un ordine dall’alto a farlo partire, ma una sua libera scelta.”
Ezio è stato un soldato schivo, ha voluto tenersi lontano dalla ribalta che il suo nobile impegno di servitore dello Stato gli aveva fatto guadagnare. La Sua divisa non fu mai motivo di vanto o di prestigio. “Tanti giornalisti nel corso della sua carriera militare gli hanno chiesto diverse interviste. Lui le rifiutò sempre con eleganza, diceva che non aveva nulla da raccontare ai curiosi, e tra quei curiosi includeva anche me. Mi sarebbe piaciuto accogliere mio marito alla fine di una giornata di lavoro, chiedendogli come fanno le altre mogli, come è andata a lavoro?”
Come qualsiasi pubblico impiegato anche Ezio era alle dipendenze dello Stato e anche se le scrivanie probabilmente le avrà viste sotto forma di macerie, era convinto di non stare facendo nulla di eccezionale, niente di eroico ma semplicemente ciò che il suo incarico prevedeva. Trovarsi in situazioni critiche e combatterle faceva parte del suo lavoro, per lui era normale lo sapeva già e ne aveva accettato i rischi.
Eppure non tutti i rischi erano conosciuti da Ezio perché se conosciuti, certamente, questa storia avrebbe avuto un altro finale.
Nel settembre 2015 Ezio si trova nella base logistica militare di Cosenza, non sa ancora che sta per iniziare la sua più dura battaglia. Una fitta forte al fianco, la febbre alta e l’immediato ricovero in ospedale. Poi una radiografia, la TAC, l’esame istologico. È un responso disarmante a cambiare completamente la sua vita e quella dei suoi familiari, un tumore al testicolo destro. Diciotto mesi di chemioterapia e un trapianto; i continui dolori alla schiena, le cure sperimentali, una leggera ripresa e poi, nel giro di qualche mese, un aggravio delle sue condizioni.
“Ezio non si lamentava, è sempre stato silenzioso, di ciò che stava vivendo e del perché stesse accadendo non ne parlava. Non gli passava neppure l’idea di mettersi contro la Stato. Sapeva che sarebbe stata una causa persa in partenza. E poi, di quello Stato lui stesso ne avrebbe avuto bisogno, perché, una volta guarito, quel lavoro Ezio lo avrebbe continuato a fare. Cercava di tenere duro e a stento di andare avanti il più possibile fino a quando, il ventisei aprile, guardandomi mi disse sto male…”
Il ventisette aprile 2017, all’età di 39 anni Ezio diventa il trecentoquarantunesimo soldato italiano morto a seguito dell’esposizione all’uranio impoverito. A dirlo non è ancora una sentenza, ma la realtà dei fatti. Quei fatti che per lungo tempo sono stati taciuti e che raccontano di quei quattro mila e più soldati italiani lottare non sui polverosi campi di battaglia ma tra le barelle di un ospedale. Sono quei fatti che oggi con grande coraggio e forza una moglie, orgogliosa e combattiva al pari di Ezio, vuole raccontare.
Questa non è la storia di un uomo ma è una strage infinita, di tutti quelli che l’hanno raccontata e combattuta, provocata ed ignorata, ma soprattutto di tutti quelli che per l’uranio impoverito sono morti, continuano a morire e moriranno ancora.
Una storia che fa paura e rabbia perche di soldati come Ezio, che si svegliano una mattina con la fitta alla schiena che uccide, dal 1999 ad oggi sono tantissimi. Un vero e proprio esercito di uomini e donne che hanno servito con onore la patria e che si ritrovano ad avere oggi un unico comune denominatore: una patologia provocata da esposizioni all’uranio impoverito.
Parliamo dell’«U238», il materiale contenuto nei proiettili di artiglieria e che sviluppa temperature così alte che nebulizza alcuni metalli, creando particelle che se accidentalmente inalate o ingerite possono favorire l’insorgenza di alcune forme tumorali. È la cosiddetta “sindorme dei balcani”, che nel 2001 finisce su tutte le prime pagine dei giornali. Lo scenario è quello della Bosnia Erzegovina e del Kosowo, paesi bombardati dalla Nato, tra il 1995 e il 1999 con armi contenenti uranio impoverito, come è emerso dalle mappe dei siti bombardati, rese pubbliche dalla Alleanza Atlantica in diverse fasi temporali tra il 2001 e il 2003. Che qualcuno sapesse è oggi palese, tanto che nello stesso periodo, una nota informativa l’U.S. Army illustrava ai vertici militari dei vari Paesi come difendersi dai rischi dovuti al contatto con l’uranio e che, al fine di prevenire malattie tumorali, i soldati erano tenuti ad indossare tute speciali completamente impermeabili. Direttive che lo Stato Italiano non solo non ha seguito ma che per decenni ha disatteso, taciuto e di cui forse ha addirittura depistato l’esistenza. Un omertoso silenzio che per essere rotto ha visto la costituzione di diverse associazioni a tutela delle vittime dell’uranio, accurati studi scientifici da parte dell’O.M.S, centinaia di lettere indirizzate al Ministero della Difesa, 540 azioni legali, 47 sentenze di condanna e ben quattro commissioni d’inchiesta parlamentare.
“Perché in questo triste scenario il vero nemico da combattere non è più la malattia ma diventa lo Stato? Lo stesso Stato che con onore è stato servito ma che poi, dopo le prime richieste di aiuto, non solo tace ma ostacola qualunque richiesta di indennizzo. La causa di sevizio in particolare, quel piccolo beneficio economico che possa consentire ai soldati ammalati di affrontare le spese necessarie per le cure…”
Nessun fattore di rischio durante il servizio prestato dai nostri militari nei Balcani diranno le prime decisioni del comitato di verifica, oppure, se la malattia veniva accertata, veniva fatta dipendere non dal contatto con l’uranio impoverito ma da fattori legati allo stress o a particolari condizioni ambientali. Cause di servizio che ovviamente non hanno a che vedere con quello che è il risarcimento del danno subito e che prevedono un lunghissimo iter burocratico che spesso si conclude con un rigetto. Questo accade perché a decidere sull’erogazioni di tali somme è un comitato di verifica, strumento interno del Ministero della Difesa, composto per l’appunto da medici militari, i quali sono chiamati ad affermare o smentire il legame che sussiste tra causa ed affetto. Invitabile chiedersi ma come può giudicare in maniere imparziale una componente composta da militari stessi? Perché negare un diritto che viene quasi sempre riconosciuto da un altro tribunale? Esattamente, perché l’unica strada praticabile sembra ormai solo quella civile. Infatti, di pari passo con le inchieste giudiziarie, seppur lentamente, la giustizia civile e la Corte dei Conti fino ad oggi hanno emesso più di 40 sentenze di condanna in tutta Italia nei confronti del Ministero della Difesa, spingendosi là dove i vertici militari rimangono scettici, riconoscendo il nesso di causalità fra la malattia sorta ai militari e la loro esposizione all’uranio impoverito. Procedimenti che, tuttavia, durano anni e che spesso i militari coinvolti non vedranno mai concludersi e su cui puntualmente il Ministero della Difesa propone appello. Una logica agghiacciante che considera il lavoro come soldi e non come vita. E se si comincia così allora finisce che la morte è un costo che può essere soltanto calcolato. È così che succede? È cosi che si muore di lavoro o è soltanto una tragica fatalità?
Ci scuseranno i lettori se abbiamo posto tante domande, ma sono le stesse domande a cui ancora oggi Marianna ed i tanti militari ammalati assieme alle loro famiglie attendono risposta. Risposte che si trascinano da e per lunghi anni e che finiscono col togliere la speranza a persone a cui di tempo ne rimane poco.
“Come si fa a stare zitti e ad aspettare, come se niente fosse, – ci dice Marianna – c’è gente che si ammala e che muore, ci sono famiglie che sopportano lutti terribili e anche qui non perché ci sia una guerra ma solo a causa del lavoro.”
Esattamente cara Marianna, il lavoro, quel lavoro che dovrebbe dare soltanto la vita e la possibilità con orgoglio di costruirsela silenziosamente, giorno dopo giorno, proprio come piaceva fare ad Ezio. Perché tra la partenza ed il traguardo, tra il primo tema ed il testamento, nel mezzo c’è tutto il resto. Quella vita da vivere giorno dopo giorno, sopportando anche le attese, per stringersi le mani e serenamente vivere assieme a chi si ama. Silenziosamente.
Marianna Aida Alessio