Non sempre la fine di una storia d’amore è pacifica . Certe condotte tuttavia, anche se apparentemente innocue e mosse da semplice curiosità più che da “vendetta” verso l’ex, possono assumere rilevanza penale. La Cassazione si è soffermata su una particolare ipotesi di accesso alla mail altrui.
Attenzione a “spiare” nella mail di altri, la comunicazione della password da parte dell’interessato potrebbe non bastare ad escludere reati. Potrebbe così sintetizzarsi il principio di diritto enunciato dalla V Sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza 52572/2017.
Il caso: l’accesso alla mail dell’ex-coniuge
Nel 2011 la Corte d’Appello di Catania ribadiva nuovamente la penale responsabilità dell’imputata per i reati di ingiuria ed accesso abusivo a sistema informatico o telematico (artt. 594 e 615-TER c.p.). Già in primo grado infatti era stato così qualificato il comportamento della donna, che nello specifico per due volte era entrata nella casella di posta elettronica dell’ex marito modificandone la password, impostando una nuova domanda di recupero della medesima ed inserendo a tal fine un’espressione dal chiaro tono ingiurioso.
Tra i motivi di doglianza alla base del successivo ricorso per Cassazione, l’imputata lamentava un presunto vizio di motivazione della sentenza di secondo grado, proprio con riferimento alla valutazione circa la ricorrenza degli estremi del reato di cui all’art. 615-TER c.p. In sostanza , ci si chiedeva dove fosse l’accesso abusivo richiesto dalla norma incriminatrice, visto che la donna non aveva fatto altro che utilizzare tranquillamente la password di accesso alla mail fornita a lei dal titolare stesso (l’ex-marito), quindi senza alcuna traccia di qualsivoglia espediente particolare.
La Corte chiarisce il concetto di “accesso abusivo”
La V Sezione Penale della Cassazione nella sentenza 52572/2017 rigetta il motivo di doglianza prima descritto. Si parte a tal proposito da una più attenta analisi dei risultati prodotti dalla condotta materiale tenuta dalla ricorrente. Il duplice accesso alla mail altrui ha senza dubbio originato una serie di effetti contrari alla volontà del titolare della casella stessa (come detto, si è trattato della modifica della sua password, impostazione di nuova domanda di recupero ed inserimento di frase ingiuriosa), impedendo allo stesso la fruizione del relativo servizio in via temporanea. Un comportamento del genere, anche se tenuto da soggetto formalmente “abilitato”- perché legittimamente in possesso della predetta password- si identifica perfettamente nella condotta di chi “…violi le condizioni e i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso“, e cioè nel fulcro del reato ex art. 615-ter c.p. secondo maggioritaria giurisprudenza di legittimità.
Quando il reato “corre” sulla Rete
Non è la prima volta che la Suprema Corte interviene per meglio decodificare alcuni aspetti strutturali di reati, quando si tratta di fare i conti con talune ipotesi- l’utilizzo di strumenti informatici e telematici- rispetto alle quali non è sempre agevole stabilire ad esempio l’oggetto materiale oppure la sussistenza o meno di un consenso effettivo da parte dell’avente diritto (come accaduto proprio con la sentenza 52572/2017). Proprio di recente la stessa Cassazione (V Sezione, s. 12603/2017) ha risolto la diatriba concernente l’esatta qualificazione giuridica della condotta di chi prende cognizione della corrispondenza conservata nell’archivio di posta elettronica dell’ex convivente, optando per l’applicazione dell’art. 616 c.p. (che incrimina il reato di violazione di corrispondenza) e non dell’art. 617 c.p. (cognizione di comunicazioni o conversazioni telefoniche o telegrafiche).
Antonio Cimminiello