La sanzione accessoria della revoca della patente di guida, prevista dall’ art. 186 comma 2 bis del Codice della Strada, ha natura amministrativa e non penale. Così si è pronunciata la Cassazione con la sentenza 23171 del 11 maggio 2017.
Il caso
Un automobilista, a seguito di patteggiamento per il reato di guida in stato di ebbrezza, previsto dal nostro Codice della Strada, si vede comminare dal giudice la sanzione accessoria della revoca della patente.
Il difensore dell’automobilista ricorre per Cassazione limitatamente al punto concernente la sanzione accessoria e solleva eccezione di illegittimità costituzionale dell’art.186, comma 2-bis, del Codice della Strada nella parte in cui rende obbligatoria la revoca della patente.
Il ragionamento del difensore muove dall’assunto che la revoca sia una sanzione sostanzialmente penale, ritenendo quindi che la norma che ne prevede l’applicazione obbligatoria contrasti con i principi dettati dagli artt.3 e 27 Cost. in quanto «non consente una valutazione di congruità della sanzione rispetto al caso concreto, risolvendosi in un’irragionevole presunzione assoluta di pericolosità del condannato, né un giudizio di proporzionalità della pena, con ciò eludendo i principi di colpevolezza, di ragionevolezza e di proporzionalità della pena».
Revoca della patente: natura penale?
La natura sostanzialmente penale della revoca della patente, troverebbe fondamento in una interpretazione “convenzionalmente” conforme alla giurisprudenza di Strasburgo.
Indipendentemente dal nomen iuris di sanzione amministrativa, saremmo davanti ad una vera e propria saznione penale, in quanto applicata sul presupposto della commissione di un reato, irrogata dal giudice a conclusione di un procedimento penale contestualmente alla condanna penale ovvero all’applicazione della pena concordata dalle parti.
Secondo i criteri più volte richiamati dalla giurisprudenza europea, tra le altre, con la sentenza Grande-Stevens, saremmo di fronte ad una sanzione sostanzialemente penale.
La Cassazione, non condivide tale impostazione.
Giurisprudenza della Corte EDU: vietato generalizzare ed intaccare la discrezionalità del legislatore interno
I giudici della Cassazione sottolineano come una interpretazione in linea con quanto sopra detto, sarebbe solo il risultato di una applicazione acritica del diritto di fonte convenzionale.
E’ vero che la Corte di Strasburgo ha elaborato un concetto sostanzialistico di materia penale, ma lo ha fatto al preciso fine di estendere l’applicazione del divieto di bis in idem in conformità all’art.4 prot. n.7 CEDU. La libertà accordata alla Corte EDU è «finalizzata unicamente all’applicazione del regime garantistico della CEDU, non può certo risolversi nell’attribuzione di un potere in grado di annullare le differenze tra le nozioni europea ed interna di sanzione penale».
Ad avvalorare tale ricostruzione vi è la sentenza della Corte Costituzionale n.49 del 14 gennaio 2015.
La Consulta ha sottolineato come «la giurisprudenza della Corte EDU ha elaborato suoi peculiari indici per qualificare una sanzione come pena ai sensi dell’art.7 CEDU al fine di scongiurare che vasti processi di decriminalizzazione possano avere l’effetto di sottrarre gli illeciti, così depenalizzati, alle garanzie sostanziali assicurate dagli artt.6 e 7 della Convenzione EDU senza voler porre in discussione la discrezionalità dei legislatori nazionali nell’adottare strumenti sanzionatori ritenuti più adeguati dell’illecito penale».
E’ quindi fondamentalmente errata e priva di fondamento ogni interpretazione del diritto di fonte convenzionale volta a privare di senso le scelte del legislatore interno, “appiattendo” così le differenze tra noziona interna e nozione europea di sanzione penale.
E’ altresì vietato generalizzare: una corretta applicazione dei principi convenzionali porta, ad un’attenta disamina delle peculiarità del caso concreto in cui tali principi sono stati enunciati così come del caso concreto in cui essi sono
invocati. L’approccio pragmatico della Corte EDU mal si adatta a generalizzazioni concettuali che vadono oltre la specificità del caso concreto.
Guida in stato d’ebbrezza: il caso concreto
L’obbligatorietà della sanzione della revoca della patente di guida, a seguito del reato di guida in stato d’ebbrezza, rientra nell’esercizio ragionevole del potere legislativo. Non vi è dunque alcun profilo di irragionevolezza
La Corte infatti sottolinea che «la progressione nella offensività delle condotte è, infatti, già scandita sia dal passaggio dall’area delle sanzioni amministrative a quella del penalmente rilevante, sia dal trascorrere da un’ipotesi di reato ad altra, più gravemente sanzionata, mediante la previsione di diverse soglie di rilevanza penale all’interno della medesima fattispecie tipica».
Una lettura sistematica della norma in questione non può non evidenziare la natura amministrativa della revoca della patente. Non bisogna trascurare il fatto che tale sanzione resta eseguibile ad opera del Prefetto, ai sensi dell’art.224, comma 3 del Codice della Strada, anche in caso di estinzione del reatoper causa diversa dalla morte dell’imputato. Ciò evidenzia la sua natura ancillare rispetto al procedimento penale.
Maria Rosaria Pensabene