Forse non molti sanno che la sorte del formaggio simbolo del made in Italy, è oggi legata all’operosità della comunità dei sikh, che a partire dagli anni ’80 si sono installati nelle valli padane e, nel tempo, hanno preso il posto dei “bergamini”, i bovari che calavano dalle valli bergamasche per governare il bestiame nelle cascine della piana. Originari delle valli del Punjab, i sikh arrivarono al seguito dei grandi circhi che si attendavano durante l’inverno sulle rive del Po e si sono ben presto integrati con le comunità locali, mostrandosi bovari eccellenti e lavoratori infaticabili. Oggi la loro comunità conta migliaia di persone, tutte impiegate negli allevamenti di mucche destinate a produrre il mitico Parmigiano Reggiano.
Una tipica giornata di lavoro nelle fattorie della zona prevede due turni, uno dalle 4 alle 8 di mattina e uno dalle 14,30 alle 18,30. Ritmi difficilmente compatibili con le abitudini occidentali, ma accettati senza tante sofferenze dai nuovi numi del Parmigiano, abituati ad alzarsi nel cuore della notte per recitare le proprie preghiere.
È una comunità silenziosa che passa gran parte del proprio tempo nelle stalle e raramente frequenta i paesi vicini. Sono tipi per certi versi pittoreschi, che certo non ci si aspetterebbe di incontrare in Val Padana: barbe foltissime che non possono tagliare e turbanti dai colori sgargianti. Ma soprattutto, sono soliti portare alla cintura un pugnale con una lama di oltre venti centimetri, il kirpan, un simbolo religioso che tutti devono sempre avere con sé. Ed è proprio questo pugnale esibito con tanta naturalezza ad avergli creato non pochi problemi. Se per i sikh il kirpan non è che un oggetto rituale, la forze dell’ordine dinnanzi a cotanto pugnale hanno contestato al malcapitato seguace del sikhismo il reato di cui all’art. 4 comma 2 legge n.110 del 1975, e cioè il «porto d’armi o oggetti atti ad offendere senza giustificato motivo».
Il problema è proprio questo: il motivo religioso è «giustificato»?
La soluzione del non è certo univoca. La Cassazione, però, con la sentenza di ieri ha questa volta scelto di non lasciare spazio ad argomenti di tipo culturale o religioso, chiudendo ogni spiraglio alla possibilità per i sikh di portare con sé il pugnale sacro ed ha confermato la condanna a duemila euro di ammenda decisa dal Tribunale di Mantova nel 2015, per il giovane sikh sorpreso a Goito con il kirpan alla cintura. L’indiano aveva provato a difendersi spiegando che il pugnale, come del resto il turbante «era un simbolo della religione e il porto costituiva adempimento del dovere religioso» e per questo aveva chiesto ai giudici di annullare la sanzione. La stessa tesi è stata portata avanti anche dalla Procura della Suprema Corte che, ritenendo tale comportamento giustificato dalla diversità culturale, aveva chiesto l’annullamento senza rinvio della sentenza di condanna.
Il verdetto della prima sezione penale della Cassazione, tuttavia, è stato tranchant. Secondo i giudici di legittimità, infatti, gli immigrati che hanno scelto di vivere nel mondo occidentale hanno «l’obbligo» di conformarsi ai valori della società nella quale hanno deciso «di stabilirsi» ben sapendo che «sono diversi» dai loro.
Nel bilanciamento dei valori in gioco, per la Cassazione è comunque la sicurezza a dover avere il sopravvento. «In una società multietnica – prosegue la motivazione della sentenza – la convivenza tra soggetti di etnia diversa richiede necessariamente l’identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbono riconoscere. Se l’integrazione non impone l’abbandono della cultura di origine, in consonanza con la previsione dell’art. 2 della Costituzione che valorizza il pluralismo sociale, il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante».
Ad avviso dei giudici, in uno Stato pluralista «è essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina».
La Corte aggiunge infine che «la decisione di stabilirsi in una società in cui è noto, e si ha la consapevolezza, che i valori di riferimento sono diversi da quella di provenienza, ne impone il rispetto e non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente dei valori di quelli della società ospitante. La società multietnica è una necessità, ma non può portare alla formazione di arcipelaghi culturali confliggenti, a seconda delle etnie che la compongono, ostandovi l’unicità del tessuto culturale e giuridico del nostro paese che individua la sicurezza pubblica come un bene da tutelare e, a tal fine, pone il divieto del porto di armi e di oggetti atti a offendere».
La decisione sui sikh tocca un tema – quello dei reati culturalmente motivati – controverso, sul quale ancora la giurisprudenza non ha maturato un atteggiamento univoco.
La domanda è se e quanto abbia senso punire persone, il cui agire è condizionato o imposto da intime convinzioni, legate alla propria formazione culturale, familiare e religiosa.
Un tema, questo che ha acquisito sempre maggiore centralità, e non solo nei dibattiti accademici, anche a causa delle sempre più massicce ondate migratorie verso il nostro Paese. Se da un lato, infatti, bisogna scongiurare il rischio di trasformare intere comunità in gruppi potenzialmente criminali in ragione delle loro usanze tradizionali, è d’altro canto innegabile l’esigenza di garantire un’applicazione uniforme del diritto.
Una lettura utile per rendersi conto della complessità del problema è il documentato libretto, edito da Einaudi nel 2014, «Culture alla Sbarra» di Gianaria e Mittone.
(Amer)