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Mancato superamento del periodo di prova: lo stile del lavoratore può fare la differenza.

In altre circostanze abbiamo affrontato l’importanza dello stile ma, in questo caso, la sentenza della Corte di Cassazione n. 1180 del 2017, avente ad oggetto il tema del positivo superamento del periodo di prova ai fini della legittimità del recesso, affronta un caso di licenziamento fondato, tra altri motivi, anche sullo “stile” del lavoratore.

Il licenziamento in questione

Un dipendente di un’azienda farmaceutica aveva impugnato il licenziamento intimato durante il periodo di prova, ritenendolo illegittimo in quanto, a suo dire, la prova sarebbe stata ampiamente superata e il licenziamento sarebbe stato intimato per un motivo estraneo al rapporto di lavoro.

La Corte di merito, dopo aver, comunque, rilevato l’ampia discrezionalità del datore di lavoro in ordine alla valutazione complessiva del dipendente assunto in prova, aveva ritenuto superato il periodo di prova mancando, di contro, elementi sufficienti a dimostrare l’esistenza di un motivo estraneo alla prova.

La Corte di Appello aveva, quindi, confermato la sentenza di primo grado, che aveva rigettato la domanda di reintegrazione nel posto di lavoro e condannato il datore di lavoro al risarcimento del danno nella misura di dieci mensilità della retribuzione globale di fatto.

Ricorreva il lavoratore deducendo, innanzi alla Corte di Cassazione, la violazione e falsa applicazione dell’articolo 2096 c.c., lamentando che la Corte d’appello avesse ritenuto non fornita la prova dell’esistenza di un motivo estraneo all’esperimento probatorio, in quanto il positivo superamento della prova era di per se’ sufficiente a costituire presunzione dell’esistenza di un motivo estraneo.

La società resistente, a fondamento del proprio ricorso incidentale, aveva argomentato che, in relazione al preteso positivo superamento della prova, la motivazione della Corte d’appello, pur premettendo che durante il periodo di prova vi sono ampi margini di discrezionalità concessi al datore di lavoro al fine di valutare la prestazione del dipendente, avrebbe ritenuto insufficiente quanto emerso in ordine allo stile dell’informatore scientifico, non coerente con il modello da adottare nell’ambito dei rapporti con gli interlocutori e con i colleghi.

E la Corte?

La Corte di Cassazione ha riformato la sentenza di merito sulla base delle seguenti considerazioni.

In primo luogo ha evidenziato che, in caso di apposizione al contratto di lavoro di un patto di prova ai sensi dell’art. 2096 c.c., “l’interesse prevalente è la sperimentazione e la valutazione, da parte del datore di lavoro, delle caratteristiche e delle qualità del lavoratore, nonché del proficuo inserimento di quest’ultimo nella struttura aziendale” con la conseguenza che il licenziamento intimato nel corso o al termine della prova, attuato per ragioni inerenti la negativa valutazione delle capacità e del comportamento professionale del lavoratore, non deve essere motivato.

Tuttavia, la libertà di recesso nel caso di lavoratore in prova ha dei limiti e non si basa sulla totale discrezionalità del datore di lavoro, in quanto la nullità del licenziamento può essere pronunciata laddove “il lavoratore dimostri il positivo superamento dell’esperimento nonché l’imputabilità del licenziamento ad un motivo illecito”.

La Corte di Cassazione ha quindi sottolineato che, entro questi limiti, “la valutazione in ordine all’esito della prova è ampiamente discrezionale, sicché la prova da parte del datore di lavoro dell’esito positivo dell’esperimento non è di per sé sufficiente ad invalidare il recesso, assumendo rilievo tale circostanza se ed in quanto manifesti che esso è stato determinato da motivi diversi”.

Motivi “diversi” che, alla luce dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, non è detto che siano assimilabili ad un motivo illecito valido a determinare l’illegittimità del recesso, essendo, comunque, necessaria una verifica in concreto.

La pronuncia in esame afferma, tuttavia, un’interpretazione più rigida dei limiti al potere di recesso del datore di lavoro, assumendo che il motivo estraneo alla prova sia assimilabile al motivo illecito: se l’assunto di partenza è costituito dall’ampia discrezionalità del datore di lavoro in materia di recesso nel periodo di prova appare giuridicamente coerente sostenere che tale potere possa essere censurato solo in presenza di un motivo illecito ex art. 1345 e dalla dimostrazione, a carico del lavoratore, che tale motivo sia stato effettivamente l’unica ragione determinante del recesso.

In conclusione …

La Corte territoriale ha errato laddove ha ritenuto che la valutazione compiuta dal datore di lavoro in ordine all’esito della prova costituisse di per se’ motivo sufficiente per rendere il recesso invalido: l’avere ritenuto sufficiente, a fini invalidanti, del recesso il fatto che la prova avesse avuto esito positivo, l’ha indotta a non considerare se tale aspetto deponesse per l’esistenza di un motivo diverso da quello del mancato superamento dell’esperimento stesso, e quindi costituisse un elemento da valutare a tali fini, unitamente alle ulteriori risultanze.

Lo “stile” poco coerente con quello aziendale del lavoratore può costituire valido motivo di recesso ai fini della valutazione del superamento del periodo di prova.

La Corte ha, quindi, accolto il ricorso incidentale e cassato la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e ha rinviato alla Corte d’appello di Venezia per il riesame delle risultanze di causa, al fine di accertare se il recesso fosse illegittimo in quanto determinato da un motivo estraneo.

Fabiola Fregola

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