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Il paziente si suicida, lo psichiatra è accusato di omicidio colposo

Il paziente si suicida, lo psichiatra è accusato di omicidio colposo.

Corte di Cassazione, sezione quarta penale, sentenza n. 43476/2017.

Il mestiere del medico, si sa, diventa ogni giorno più difficile, vuoi per le modifiche legislative che si innestano l’una sull’altra, vuoi per le gravose responsabilità di controllo e protezione che sullo stesso incombono nella cura del paziente e che lo portano a rispondere, anche penalmente, di quanto gli accade. È quanto è successo ad uno psichiatra che, dopo essere stato allertato dal compagno di una propria paziente schizofrenica del fatto che avesse assunto un intero flacone di psicofarmaco, minimizzando l’accaduto, “rispediva” entrambi a casa senza nessuna particolare indicazione. La donna, dopo un’ora dal rientro, si suicidava. Il medico, pertanto, veniva imputato e condannato per omicidio colposo.

I giudici di primo e secondo grado avevano ritenuto lo psichiatra responsabile della morte della paziente sulla scorta di un giudizio sussistenza del nesso causale tra l’evento morte e la condotta del medico.  L’ingerimento di una così ingente quantità di farmaco avrebbe dovuto allertare lo psichiatra. Lo stesso,  infatti, da un lato avrebbe dovuto tenere la paziente sotto controllo per un tempo minimo ragionevole, tenuto conto anche dei tempi di azione di un tale sovradosaggio del farmaco e, dall’altro, proprio in ragione di ciò, avrebbe dovuto altresì sottoporla a un supplemento di indagine e monitoraggio clinico.

Lo stesso, invece, non aveva sottoposto la paziente ad osservazione né aveva imposto al marito un controllo efficace della stessa una volta rientrati a casa. Secondo i giudici, tali comportamenti avrebbero potuto escludere l’evento concretamente verificatosi “con probabilità prossima alla certezza”.

Obblighi dello psichiatra nei confronti del paziente.

Secondo i principi stabiliti dalla Cassazione, l’obbligo che incombe sullo psichiatra si qualifica sia come obbligo di controllo, essendo il paziente una fonte di pericolo rispetto al quale il medico-garante ha il dovere di neutralizzare ogni effetto/atteggiamento lesivo verso terzi, che come obbligo di protezione nei confronti del paziente medesimo che, in quanto soggetto debole, può rappresentare un pericolo addirittura per se stesso. Tuttavia, il rischio connesso alla gestione del paziente è un rischio consentito che delimita la responsabilità del medico. Come dice la Corte, “in tali casi, il giudice deve verificare, con valutazione ex ante, l’adeguatezza delle pratiche terapeutiche poste in essere dal sanitario a governare il rischio specifico, pure a fronte di un esito infausto sortito dalle stesse”.

Al fine di effettuare una corretta valutazione della delimitazione del rischio consentito, vengono in rilievo sia le raccomandazioni contenute nelle  linee guida che offrono punti di riferimento sia per il medico quando deve optare per la scelta terapeutica più adatta nel caso di specie, sia per il giudice quando deve valutare giudizialmente la condotta del primo. In base a quanto detto, nel caso di specie, il medico, in ottemperanza a quanto prescritto dalle linee guida per casi analoghi, avrebbe dovuto prescrivere quanto meno un ASO, ossia un accertamento medico obbligatorio e, comunque, avrebbe dovuto apprestare tutte le misure appropriate a scongiurare un rischio di una condotta autolesiva della paziente.

Questa volta, purtroppo, a fronte di troppa leggerezza, ha vinto debolezza umana.

Laura Piras

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